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MANZONI: Tutto sui
"Promessi sposi" Riassunti
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Capitolo XXXIII
I capitoli storici precedenti
hanno preparato lo scenario sul
quale i «nostri personaggi» si
muoveranno da qui in avanti.
In una notte verso la fine
dell'agosto 1630, a Milano, don
Rodrigo sta tornando a casa dopo
aver scherzosamente commemorato
con amici, durante una festa, il
conte Attilio morto da poco di
peste.
Non sfugge al Griso che il suo
padrone si sente poco bene.
Risvegliandosi bruscamente da un
sonno agitato, durante il quale
ha sognato padre Cristoforo in
atto di maledirlo, don Rodrigo
si accorge di avere un
«bubbone», sintomo
inequivocabile della peste.
Prega il Griso di chiamare di
nascosto un medico, ma il bravo
lo tradisce e torna con i
monatti che lo portano al
lazzaretto, dopo averlo
derubato, d'intesa con il
sicario. Il Griso morirà il
giorno successivo, fulminato
dalla malattia contratta per
aver frugato le vesti del
padrone alla ricerca di altro
denaro.
Renzo, nel Bergamasco, ha preso
la peste e ne è guarito:
approfittando di questa
condizione di immunità e del
disordine generale decide di
tornare al paese alla ricerca di
Lucia.
La sorte del protagonista Renzo
e dell'antagonista Rodrigo è
dunque implicitamente
confrontata: mentre il primo,
guarito e accompagnato dalla
benevolenza del cugino, si
accinge al ritorno e alla vita,
il secondo, malato e tradito
anche dal servitore, si avvia al
lazzaretto e alla morte.
Nel paese semideserto Renzo
incontra Tonio, ridotto dalla
peste come quel «povero scemo di
Gervaso», e don Abbondio, che
manifesta meraviglia e
scontentezza nel vederlo e lo
informa che Lucia è a Milano,
Agnese a Pasturo, mentre padre
Cristoforo «è andato via che è
un pezzo». Passa davanti alla
sua vigna rinselvatichita e si
affaccia nella sua casa
semidistrutta. Trova ospitalità
presso un amico i cui familiari
sono tutti morti. Qui passa la
notte e, il mattino seguente, si
dirige verso Milano, dove
arriva, dopo aver dormito in un
fienile, all'alba del giorno
seguente.
Capitolo XXXIV
Renzo entra in una città ben
diversa da quella in cui era
arrivato quasi due anni prima:
ora su tutto è calato un
silenzio opprimente, di morte,
rotto da «rumor di frustate e di
cavalli, con un tintinnio di
campanelli, e ogni tanto un
chioccar di fruste, con un
accompagnamento d'uni». Anche il
tempo «chiuso, l'aria pesante,
il cielo velato per tutto da una
nuvola o da un nebbione uguale,
inerte, che pareva negare il
sole senza prometter la pioggia»
accresce l'orrore del luogo.
Renzo entra dunque da Porta
Nuova senza troppe difficoltà;
viene scambiato quasi subito per
un untore da un passante, al
quale si è rivolto per
informazioni, che fugge
inorridito. Inoltrandosi nella
città viene chiamato da una
donna, segregata in casa con i
suoi figli, che lo prega di
chiedere soccorso per loro.
Renzo le dà due pani e prosegue:
vede la macchina della tortura e
un convoglio funebre, e incontra
un prete che, dopo avergli dato
le opportune indicazioni per
trovare la casa di donna
Prassede e don Ferrante, si
avvia a soccorrere la donna.
Renzo percorre la città in mezzo
a scene di orrore e di
desolazione: dovunque i segni
della peste; i monatti portano
via i morti «come sacchi»; lo
spettacolo commovente di una
madre, che affida ai monatti la
sua bambina morta, Cecilia,
pregandoli di passare la sera a
prendere anche lei ed una figlia
più piccola, attrae la sua
attenzione. Finalmente giunge al
palazzo, bussa, si affaccia una
vecchia e lo informa brevemente
e sgarbatamente che Lucia è al
lazzaretto. Renzo vorrebbe
saperne di più e continua a
bussare: una donna si mette a
urlare, al suo indirizzo, «dàgli
all'untore». Per sottrarsi alla
folla prontamente accorsa, Renzo
è costretto a sfoderare il suo
coltello e a saltare su un carro
carico di cadaveri, guidato dai
monatti che lo aiutano. Appena
può scende dal carro dove, ormai
insensibili allo spettacolo
della morte, i monatti bevono e
cantano e si dirige verso il
lazzaretto che gli si presenta
fin dall'esterno come una
«vasta, diversa indescrivibile
scena».
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