|
MANZONI: Tutto sui
"Promessi sposi" Riassunti
|
|
|
|
Capitolo XXVII
Il capitolo si apre con un
preciso ragguaglio storico sulla
guerra di successione per il
Ducato di Mantova e del
Monferrato, in cui il Manzoni
trova occasione per esprimere la
sua totale condanna della
guerra.
Inizia la corrispondenza tra
Agnese e Renzo, molto faticosa
perché entrambi non sanno né
leggere né scrivere e quindi
devono affidarsi a intermediari
che pretendono, da «letterati»
(contro di loro si appunta
l'ironia manzoniana) di saperne
più dei diretti interessati.
Al giovane sono inviati parte
dei soldi secondo il volere di
Lucia, assieme alla notizia del
voto a cui egli dichiara di non
volersi rassegnare.
Lucia, ormai a Milano in casa di
donna Prassede, viene da questa
tormentata perché dimentichi
quel «poco di buono». Per
fortuna donna Prassede deve «far
del bene» a molte altre persone:
l'unico che riesce a sottrarsi
al suo dispotico potere è il
marito «letterato» don Ferrante,
tipico esponente della cultura
secentesca, di cui è
testimonianza la sua biblioteca
ricca di oltre 300 volumi. È
esperto infatti di astrologia;
conosce la filosofia antica
«quanto poteva bastare» ed è
convinto seguace di Aristotele;
si è dilettato di filosofia
naturale; è profondo conoscitore
di magia e stregoneria; ha
convinzioni radicate nel campo
della storia e della politica; è
«addottrinato» soprattutto nella
scienza cavalleresca.
Quale sia il giudizio del
Manzoni su quella cultura, di
cui don Ferrante è qualificato
esponente, appare chiaro dal
contesto; ad ogni buon conto
l'autore ritenne opportuno
ribadirlo impietosamente a
conclusione del capitolo XXXVII,
dopo aver dato conto
dell'opinione di don Ferrante
sulla peste e della sua morte,
là dove, a proposito della sua
raccolta di libri
«considerabile», si chiede
ironicamente: «E quella sua
famosa libreria? E' forse ancora
dispersa su per i muriccioli».
La situazione rimane pressoché
inalterata fino all'autunno
1629, quando un evento pubblico
travolge tutti «come un
turbine»: dopo la carestia, la
discesa degli eserciti imperiali
che porteranno la peste.
Capitolo XXVIII
Questo capitolo, in cui non
compare alcun personaggio
d'invenzione, si riallaccia
direttamente agli eventi storici
narrati dall'undicesimo al
sedicesimo.
Dopo il tumulto di san Martino
ed un illusorio ed effimero
periodo di abbondanza, la
carestia è andata aumentando e
il governo si conferma incapace
di prendere opportuni
provvedimenti.
Le citazioni dalle «gride», che
si susseguono fitte,
paradossalmente dimostrano
l'inefficienza di
un'amministrazione capace solo
di minacciare pene a proprio
arbitrio.
Segue la «copia di quel ritratto
doloroso» delle sofferenze
causate ai vari gruppi sociali.
I mendicanti aumentano, rallenta
o cessa ogni attività
lavorativa. La gente comincia a
morire d'inedia per le strade.
Poco può l'azione di carità
promossa dal cardinale. Così
passano l'inverno e la primavera
del 1629. Contro il parere della
Sanità il tribunale di
provvisione decide di radunare
tutti gli accattoni, malati e
sani, nel
lazzaretto: la mortalità cresce
spaventosamente per le precarie
condizioni igieniche e la
scarsità d'acqua e di cibo. Con
il nuovo raccolto cessa
finalmente la carestia, anche se
la mortalità si prolunga fin
nell'autunno.
Cambia il governatore di Milano
che si allontana dalla capitale
fra spontanee manifestazioni di
ostilità dei cittadini: «La
moltitudine, che le guardie
avevan tentano invano di
respingere, precedeva,
circondava, seguiva le carrozze,
gridando: - la va via la
carestia, va via il sangue de'
poveri, - e peggio.
Quando furori vicini alla porta,
cominciarono anche a tirar
sassi, mattoni, torsoli, bucce
d'ogni sorte, la munizione
solita in somma di quelle
spedizioni: una parte corse
sulle mura, e di là fecero
un'ultima scarica sulle carrozze
che uscivano».
Si profila un nuovo terribile
flagello: l'imperatore fa
scendere in Italia, per prendere
possesso di Mantova, un
esercito, composto di soldati di
ventura, usi al saccheggio (il
Manzoni esprime un giudizio
molto severo sulle milizie
mercenarie). Ventottomila fanti
e settemila cavalieri, scendono
dalla Valtellina, lungo il corso
dell'Adda, dilagano a ondate
successive per venti giorni,
attraverso i paesi della nostra
storia.
|
|
|
| |
|
|
|
| |