IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Riassunto Promessi sposi

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MANZONI: Tutto sui "Promessi sposi" Riassunti

Capitolo XXIII

Nonostante il cappellano lo sconsigli e lo metta in guardia, il cardinale accoglie con affetto l'innominato che, di fronte a tanta bontà e serenità, dichiara piangendo il suo rimorso, il suo pentimento e la volontà di riparare ai misfatti commessi. Gli narra così la vicenda di Lucia. Il cardinale manda a chiamare don Abbondio, presente tra i curati convenuti per la visita pastorale, e lo invia, recalcitrante, con una buona donna del villaggio, a prendere Lucia insieme all'innominato, la cui conversione ha commosso e meravigliato tutto il paese. Durante il percorso, compiuto su una mula, don Abbondio, disturbato nella sua quiete e timoroso della vicinanza dell'innominato, si lamenta tra sé e sé dei «santi e dei birboni»: don Rodrigo, l'innominato, il cardinale. Finalmente gìungono al castello.

Il capitolo consta di due parti di tono profondamente diverso: nella prima assistiamo all'incontro tra questi due grandi, il cardinale e l'innominato, culminante nella conversione. La scena può riassumersi nell'immagine, drammatica e patetica, dell'abbraccio: «Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo».

Il ritorno in scena di un personaggio da tempo abbandonato, don Abbondío, con il consueto carico di egoismo e viltà, riconduce il tono al comico: dalla sua ottica, espressa in uno dei celebri soliloqui, «santi e birboni» son tutti uguali, tutti coalizzati per turbare la sua pace.

Capitolo XXIV

Lucia, risvegliatasi da poco, sente improvvisamente un «tramestio»: entrano don Abbondio e la «buona donna» che subito la confortano. L'innominato rimane sulla soglia e le chiede perdono.

Tornano tutti al paese. Anche durante il ritorno don Abbondio, in preda alla stizza e alla paura, si abbandona ad un soliloquio, in cui esprime il timore che don Rodrigo possa prendersela con lui per l'esìto della vicenda e manifesta l'intenzìone dì tornare subito a casa, come infatti fa, appena arrivato al paese. Lucia è ospite della donna, moglie del sarto del villaggio: qui si ricorda del voto pronunciato e, dopo un attimo di smarrimento, quasi di pentimento, cerca rifugio nella preghiera e conferma la promessa. Tornano dalla funzione celebrata dal cardinale il sarto - che ha fama di uomo di lettere perché ha letto tre libri - e i suoi figli, e, ancora impressionati e commossi dalla predica, si mettono a tavola. Arriva Agnese, mandata a chiamare dal cardinale, tramite un uomo «di giudizio», che durante il viaggio ha incontrato don Abbondio: questi non ha mancato di raccomandarle il silenzio a proposito della vicenda del matrimonio. Lucia le tace il voto. Giunge in visita, nella casa del sarto, il cardinale, che ha pranzato con l'innominato e l'ha poi trattenuto con sé in un lungo colloquio: Agnese gli racconta del rifiuto di don Abbondio di celebrare il matrimonio; Lucia gli confessa il tentativo del matrimonio di sorpresa; entrambe difendono Renzo, a proposito del quale il cardinale promette di informarsi. Alla sua richiesta di ospitalità per Lucia e Agnese, il sarto, che tanto avrebbe desiderato far buona impressione su così gran personaggio, riesce solo a rispondere «Si figuri!». Nel frattempo l'innominato torna al castello e comunica ai suoi la ferma volontà di cambiare vita: solo chi vuole imitarlo può rimanere al suo servizio.
Mentre i bravi pensano alla strada che conviene ora intraprendere, va a letto: finalmente rasserenato il signore si addormenta.

È il più ampio capitolo del romanzo e il Manzoni sembra voler toccare tutte le corde dell'espressione. Nella prima sequenza della liberazione di Lucia il patetico si intreccia al comico, affidato, ancora una volta, a don Abbondio e, in particolare, alla sua apostrofe alla mula: «- Anche tu, - diceva tra sé alla bestia, - hai quel maledetto
gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero! -».

Segue la scena idillica di lieta e semplice intimità domestica in casa del sarto, forse l'unica famiglia completa e serena del romanzo, proprio perché, sembra sottintendere il Manzoni, umile ma non bisognosa, e quindi in grado di tradurre in opere i precetti di solidarietà cristiana, e con una certa, seppur risibile, ambizione culturale. Si pensi, per contrasto, alla famiglia di Tonio (cap. VI), umile e completa anche quella, ma bisognosa (ci informa lo «sguardo bieco d'amor rabbioso» alla piccola polenta, insieme al fatto che la collana sia stata impegnata) e contrassegnata da scarsa intesa tra i coniugi.

Il capitolo si conclude con il definitivo ritorno al castello dell'innominato, ormai convertito: nel tono solenne del discorso che rivolge ai bravi c'è tutta l'antica autorevolezza. Simile in questo a padre Cristoforo, l'uomo nuovo abbandona gli aspetti negativi dell'uomo antico, ma ne conserva i lati positivi, in questo caso l'autorevolezza
e la capacità organizzativa (come vedremo anche nei capp. XXIX e XXX). Come il Manzoni, potremmo dire, che, convertendosi, non aveva abbandonato gli ideali illuministico-rivoluzionari della prima giovinezza di uguaglianza, libertà e fraternità.

 

© 2009 - Luigi De Bellis