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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXXI
Continua,
nel XXXI, il rimprovero che
Beatrice, nel canto precedente,
ha incominciato a rivolgere al
Poeta per il traviamento morale
al quale egli si era abbandonato
dopo la morte della donna amata.
Da quali allettamenti, da quali
piaceri - vuole sapere Beatrice
Dante si è lasciato attrarre,
tanto da dimenticare ogni dovere
spirituale? Furono - risponde,
piangendo, il pellegrino - i
beni fallaci del mondo che
influenzarono il suo animo dopo
la morte di chi in terra
rappresentava per lui la
bellezza, l'amore, la virtù.
Anche se, agli occhi di Dio, è
sommamente meritoria la
confessione del proprio peccato,
è necessario che il Poeta senta
fino in fondo la vergogna delle
sue colpe: poiché la natura o
l'arte non offrirono mai a Dante
una bellezza pari a quella di
Beatrice e questa bellezza andò
distrutta con la morte,
nessun'altra realtà materiale -
conclude la donna - avrebbe
dovuto attirare la sua
attenzione, dal momento che ogni
bene terreno, anche il più alto,
risulta sempre caduco; anzi,
proprio in base a questa
constatazione, il suo animo
avrebbe dovuto volgersi verso
l'alto. Ad un invito di
Beatrice, Dante solleva lo
sguardo per osservarla: la
celestiale bellezza della donna,
anche se ancora celata dal velo,
è tale che il Poeta, avvertendo
con estrema intensità il
pentimento per le sue colpe,
perde conoscenza. Allorché si
riprende, si trova immerso nel
Letè per opera di Matelda, la
quale lo conduce sull'altra
riva, dove Dante viene
circondato dalle quattro virtù
cardinali. Ma sono le tre virtù
teologali che hanno il compito
di portarlo davanti a Beatrice:
gli occhi del Poeta fissano
quelli splendenti della donna,
il cui sguardo è però rivolto al
grifone. Solo in seguito alla
preghiera delle tre virtù
teologali ella acconsente a
liberare il suo volto dal velo
che lo ricopre, affinché Dante
la possa vedere in tutta la sua
bellezza.
INTRODUZIONE CRITICA
Uno dei problemi di maggior
interesse di fronte al quale si
trova l'esegesi della Commedia è
quello del traviamento che
Beatrice rimprovera a Dante nei
canti XXX e XXXI del Purgatorio.
Esso implica a sua volta il
problema della natura, in
maggiore o minor misura
allegorica, del personaggio di
Beatrice e, più in generale,
quello dell'interpretazione
dell'intero poema. Per alcuni
studiosi, infatti, il solo
significato che conti, ai fini
di una valutazione critica della
Commedia, è quello suggerito
direttamente da una lettura del
testo quanto più immediata e
scevra di preoccupazioni
dottrinali, paga cioè di mettere
in luce il concretarsi della
fantasia del Poeta in immagini,
scene, situazioni. Il Croce, che
rappresenta nella sua forma più
intransigente questo indirizzo
critico, sostiene ad esempio
che, per intendere il "dramma
umano" avente come suoi
protagonisti Dante e Beatrice
nel paradiso terrestre, occorre
"prescindere da ogni significato
allegorico, e dimenticare quello
che Beatrice allegoricamente è",
per non vedere in questo
personaggio se non "la donna
amata nella prima giovinezza,
l'ideale intorno a cui e in cui
si sono esaltati gli altri
ideali tutti, di generosità, di
vita pura, di felicità, di
affetto e bontà, di nobile
operosità, di sublime
religione". A questa definizione
del personaggio di Beatrice,
generica e quindi di scarsa
utilità per farci penetrare il
significato di quello che è
considerato, con giudizio quasi
unanime, l'episodio alla luce
del quale deve essere
interpretato l'intero poema, il
Croce fa seguire una pagina di
commossa eloquenza, la quale,
tuttavia, ha anch'essa il
difetto di prescindere da
qualsiasi prospettiva storica,
onde la parola di Dante risulta
astratta dalle sue radici
biografiche e culturali: "E poi
quell'ideale si è distaccato da
noi, fortuna o morte o nostra
colpa ce l'ha tolto, e la vita
nostra è corsa dietro ad altri
ideali, angusti, inferiori,
mutevoli... Ed ecco che quando
la sazietà e la nausea e il
rimorso ci ha presi, quando ci
sentiamo avvelenati dai veleni
che la nostra stessa febbrile
azione e passione ha prodotti;
quando più ne siamo sviati e
lontani, quell'ideale ci torna
innanzi: noi mutati e stanchi,
esso immutato, anzi fatto più
bello e vivo e raggiante nel
tempo che è trascorso e per
effetto della distanza che è
ormai tra noi ed esso. Noi lo
riconosciamo e chiniamo il volto
tra dolore e vergogna; esso ci
riconosce, ci rimprovera, ci
compatisce, e si appresta a
confortarci e a sorreggerci..."
Ad una proposta come quella del
Croce, che suggerisce di non
prendere in considerazione
l'intero piano delle
interpretazioni allegoriche, si
oppone quella di studiosi che
hanno risolto interamente il
personaggio di Beatrice in
allegoria, privandolo delle sue
radici nella immediatezza dei
sentimenti del Poeta ed
impoverendo di sostanza umana
l'incontro di Dante con la donna
amata in gioventù, la quale
torna a lui come salvatrice e
giudice sulla sommità del
purgatorio. In realtà, qui come
quasi ovunque nel poema; il
sovrassenso è incluso nel senso
letterale, più che essere a
quest'ultimo estrinsecamente
sovrapposto, onde più che il
termine "allegoria" appare
esatto adottare, per la
Commedia, il termine "figura"
suggerito dall'Auerbach. Cosi la
Beatrice che si mostra a Dante
nello splendore della sua gloria
e come analogo del Cristo
giudicante nel paradiso
terrestre, è pur sempre la
fanciulla cantata nella Vita
Nova, arricchita di tratti che
sono maturati nel pensiero del
Poeta durante la composizione
del Convivio e la partecipazione
attiva alla vita politica. Al
suo primo apparire sul carro
della Chiesa, Beatrice, non
diversamente dalla giovinetta
cantata nella Vita Nova, si
propone al Poeta come termine di
adorazione non personalizzato,
per occulta virtù (canto XXX,
verso 38). Ma, come osserva il
Montanari - un critico che ha
prospettato in maniera molto
persuasiva il confluire nel
personaggio di Beatrice di
successive esperienze del Poeta,
ognuna delle quali, lungi dal
negare la precedente, la
inverava in una visuale più
ampia - "nello sviluppo che
immediatamente attua la figura
di Beatrice nel Purgatorio, tale
virtù diventa personale e
incarnata, manifestandosi in
rimproveri, ammonizioni e
conforti non solo verbali, ma
attuati in concreti
atteggiamenti di tutta la
persona». Prendendo l'avvio da
un puntuale raffronto istituito
fra la Beatrice della Vita Nova
e quella della Commedia, il
critico giunge ad una
caratterizzazione dell'intero
sviluppo dell'arte di Dante e
mette in luce i rapporti che
intercorrono in essa tra
presupposti culturali e morali e
risoluzioni di stile. Scrive il
Montanari: "Nella Vita Nova,
quando la "divinità" di Beatrice
era tutta metaforica, Dante non
la voleva compromettere in gesti
umani e la faceva tacere: qui
nel Purgatorio e nel Paradiso
Beatrice può parlare e muoversi
liberamente perché la sua realtà
sovrumana è ormai teologicamente
ancorata in una realtà che la
miseria umana non può "tangere".
Con queste osservazioni si
giunge a riconoscere... una
delle linee maestre dello
sviluppo della fantasia di Dante
dall'iperbole retorica astratta,
a una concreta realtà umana
raggiunta attraverso l'impegno
di superare l'assolutizzazione
del sentimento immediato per
raggiungere una giustificazione
del sentimento in un piano
universale di riferimenti non
più retorici, ma teoreticamente
impegnativi: capaci di tradursi
cioè in una teoria generale
filosofica e teologica. Per
questa via Dante riesce a
recuperare le note più vive ed
umane della sua esperienza non
più elevando Beatrice per via di
iperboli retoriche, ma proprio
invece conferendo a Beatrice una
piena e compiuta umanità, che fa
della Beatrice operante nella
Commedia non più una figura
soltanto sovrumana e sparente,
ma una donna viva e
compiutamente incarnata".
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