|
DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXVIII° |
 |
 |
 |
 |
1 |
Chi poria
mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar più volte? |
|
1 |
Chi mai potrebbe sia pure in prosa parlare compiutamente
del sangue e delle ferite che vidi allora, anche se le
descrivesse più volte? |
4 |
Ogne lingua
per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno. |
|
4 |
Certamente ogni lingua
sarebbe inadeguata a causa del nostro linguaggio e del
nostro intelletto che hanno poca capacità a contenere
fatti così straordinari. |
7 |
S'el s'aunasse
ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente |
|
7 |
Se anche si riunisse tutta
la gente che un tempo nella fortunosa terra di Puglia si
dolse delle sue ferite |
10 |
per li
Troiani e per la lunga guerra
che de l'anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra, |
|
10 |
per opera dei Romani
(Troiani: in quanto discendevano da Enea e dai suoi
compagni) e a causa del lungo conflitto che fruttò un
così ingente bottino di anelli, come narra Livio, il
quale non sbaglia, |
13 |
con quella
che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie |
|
13 |
con quella che provò dolori di ferite riportate
nell’opporsi a Roberto Guiscardo, e con l’altra le cui
ossa sono tuttora raccolte |
16 |
a Ceperan,
là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo; |
|
16 |
a Ceprano, là dove ogni
pugliese fu traditore, e là presso Tagliacozzo, dove il
vecchio Alardo vinse senza far uso delle armi, |
19 |
e qual
forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo. |
|
19 |
e ostentasse
chi un suo membro trafitto e chi un suo membro mutilato,
non sarebbe possibile uguagliare l’aspetto ripugnante
della nona bolgia. |
|
L’esordio di questo canto non si concreta, come quelli
di altri canti di Malebolge, in un quadro amorosamente
delineato in tutti i suoi particolari, in una
"miniatura" vivente di vita propria nella desolazione
dell’atmosfera infernale. Esso propone già in maniera
esplicita gli elementi fondamentali del canto,
caratterizzato dal "sistematico alternarsi della
descrizione delle mutilazioni infernali alla
rievocazione di battaglie e di stragi terrene" (Fubini).
Per il Momigliano questa apertura di canto ricorda, per
la sua "intonazíone oratoría", quella del canto dei
simoniaci, pur risultandone, nel suo analitico
dispiegarsi, meno vigorosa. Non a torto tuttavia il
Fubini respinge questa presa di posizione, sottolineando
che questo esordio, "così classicamente atteggiato,
viene a conferire sin dall’inizio una dignità classica a
una materia per se stessa e per non pochi dei modi in
cui si atteggia, lontana dall’antica poesia, quasi a
render più esplicita la ambizione dantesca di assumere
anche una materia così tipicamente medievale entro
un’arte che ai classici guarda come suo costante punto
di rìferimento". Il richiamo alla tradizione classica è
evidente nella preterizione della prima terzina e
nell’affermazione del verso 4, che riecheggiano due
passi dell’Eneide (Il, versi 361-362 e VI, versi
625-627), nell’ampio, armonico distendersi dei periodi,
nelle perifrasi, nel termine fortunata, riferito ad una
terra, veduta, nel succedersi dei secoli, come
ricettacolo di stragi e di desolazione (l’ossame che
ancora rende illustre Ceprano), nella menzione di Livio
definìto peraltro, medievalmente, colui che non erra e
nel ricordo delle guerre sannitiche e puniche. La
rappresentazione delle pene dei dannati della nona
bolgia, i seminatori di discordia, sarà caratterizzata
dalla scelta di vocaboli e forme "propri della più greve
tradizione " comica "" (Fubini); le forme di questo
esordio rappresentano invece un chiaro esempio di ciò
che per Dante era lo stile "tragico ", proprio dei poemi
dell’antichità e delle " canzoni " medievali. A questo
proposito occorre rilevare la somiglianza fra
quest’apertura di canto e i versi con cui inizia il
Compianto per la morte del Re giovane del trovatore
Bertran de Bom (cfr. versi 133-135) che scrisse liriche
di carattere eroico e celebrò la gloria dei
guerreggiare: "Se tutti i duoli, gli affanni, i dolori,
le sventure e le miserie, che mal si udirono in questo
mondo dolente, fossero riuniti insieme, sembrerebbero
tutti lievi a paragone della morte dei giovane re
inglese". Tra le guerre che insanguinarono la Puglia
(nome con il quale viene qui designato l’intero regno di
Napoli) il Poeta accenna, in questo esordio, a quelle
contro i Sanniti (343-294 a. C.); alla seconda guerra
punica, che culminò nella battaglia di Canne (216 a.
C.), nella quale il numero dei cavalieri e senatori
romani caduti in combattimento contro le milizie di
Annibale fu così alto, secondo quanto racconta Tito
Livio (XXII, 6; XXIII, 7 e 12), che con i loro anelli fu
formato un cumulo di tre moggia; alla campagna condotta
da Roberto il Guiscardo, capo dei Normanni e in seguito
duca di Puglia e di Calabria (1059-1084), contro i
Saraceni, che occupavano l’Italia meridionale; alla
battaglia di Benevento (1266) combattuta dalle truppe
guelfe al comando di Carlo I d’Angiò contro l’esercito
ghibellino di Manfredi e vinta dai Guelfi, secondo la
voce alla quale Dante mostra di dar credito, per il
tradimento dei baroni meridionali, che si rifiutarono di
difendere il passo di Ceprano sul fiume Liri; a quella
di Tagliacozzo (1268), in cui le truppe imperiali,
guidate dall’ultimo imperatore della casa di Svevia,
Corradino, vennero sconfitte con l’astuzia (sanz’arme)
da Erard di Valéry, uno dei consigheri di Carlo I d’Angiò. |
22 |
Già veggia,
per mezzul perdere o lulla,
com' io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla. |
|
22 |
Una botte, per il fatto che ha perduto la doga mediana o
una delle laterali, non si apre certo così, come io vidi
(aprirsi) un dannato, squarciato dal mento all’ano: |
25 |
Tra le gambe
pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia. |
|
25 |
gli intestini gli pendevano tra le gambe; gli si
vedevano le interiora (la corata: polmoni, cuore,
fegato, milza) e il lurido involucro che trasforma in
sterco ciò che si inghiotte. |
|
Acutamente il Momigliano rileva che la figura del
dannato, così come è descritta in queste due terzine,
"sembra, più che un grande mutilato di una delle
battaglie accennate nell’esordio, un disgustoso pezzo
anatomico", mentre il Sanguineti, dal canto suo, osserva
che " l’esplorazione anatomica, sul motivo del sangue e
delle piaghe, del forato, e del mozzo... giunge a questo
sezionare crudele ed esperto, che si compiace del
dettaglio acre e crudo, freddamente avanzato, con tutta
la diligenza di una risentita inchiesta: in tale
sentimento di penetrante analisi è la stessa carica
etica del canto, che si fa tecnica e tagliente parola".
In particolare la funzione delle perifrasi (infin dove
si trulla... ‘l tristo sacco che merda la di quel che si
trangugia) "qui non è già quella di equilibrare la
tensione della puntualità linguistica e il suo aspro
colore con una qualche distensione compensatrice, o con
attenuata cautela rappresentativa, ma nasce, proprio
all’opposto, da una violenta intenzione degradante". |
28 |
Mentre che
tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco! |
|
28 |
Mentre avidamente fissavo
lo sguardo su di lui, mi guardò, e si aperse il petto
con le mani, dicendo: "Vedi dunque come mi lacero! |
31 |
vedi come
storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto. |
|
31 |
vedi come è straziato
Maometto! Davanti a me lagrimando cammina Alì, spaccato
nel volto dal mento ai capelli. |
|
Maometto (560-633 d. C.), fondatore della religione
isiamica, è posto nella bolgia in cui sono puniti i
seminator di scandalo e di scisma per aver determinato
un’ulteriore divisione religiosa fra i popoli. Una
credenza diffusa nel Medioevo vedeva in lui un cristiano
che aveva abiurato alla propria fede e addirittura un
cardinale che aveva aspirato al papato.
Ali Ebn Abi Talid (597-660 d. C.), cugino e genero di
Maometto, introdusse, nell’ambito della religione
islamica, i germi della scissione, fondando una setta
che si staccò dall’ortodossia musulmana. Rispetto a
quella di Ali, che ha solo il volto spaccato in due, la
lacerazione di Maometto è più atroce, più grave essendo
stata la discordia da quest’ultimo introdotta nel mondo. |
34 |
E tutti li
altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così. |
|
34 |
E tutti gli altri che vedi
in questo luogo, furono da vivi seminatori di discordia
e di scissione, e perciò sono così spaccati. |
37 |
Un diavolo è
qua dietro che n'accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma, |
|
37 |
Qui dietro è un diavolo
che ci acconcia in modo tanto crudele, sottoponendo di
nuovo ciascuno di questa turba al taglio della sua
spada, |
40 |
quand' avem
volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch'altri dinanzi li rivada. |
|
40 |
quando abbiamo fatto il
giro della bolgia dolorosa; poiché le ferite sono
rimarginate prima che ciascuno di noi gli ritorni
davanti. |
43 |
Ma tu chi
se' che 'n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d'ire a la pena
ch'è giudicata in su le tue accuse?». |
|
43 |
Ma chi sei tu che ti
trattieni a guardare sul ponte, forse per ritardare di
andare al castigo che è assegnato in giudizio in base a
ciò di cui tu stesso ti sei accusato (davanti a Minosse;
cfr. canto V, versi 7-8)?" |
46 |
«Né morte 'l
giunse ancor, né colpa 'l mena»,
rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena, |
|
46 |
"Né morte ancora lo ha
raggiunto, né lo spinge il peccato " rispose Virgilio "a
subire la pena; ma per dargli una conoscenza completa
delle pene infernali, |
49 |
a me, che
morto son, convien menarlo
per lo 'nferno qua giù di giro in giro;
e quest' è ver così com' io ti parlo». |
|
49 |
io, che sono morto, debbo
guidarlo quaggiù attraverso l’inferno di cerchio in
cerchio: e ciò è vero com’è vero che ti sto parlando." |
52 |
Più fuor di
cento che, quando l'udiro,
s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro. |
|
52 |
Furono più di cento le
anime che, quando lo intesero, si fermarono nella bolgia
a fissarmi dimenticando, per lo stupore. il loro
tormento. |
55 |
«Or dì a fra
Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, |
|
55 |
"Dì dunque, tu che forse
vedrai il sole tra poco, a fra Dolcino, se non vuole
seguirmi all’inferno fra breve, di provvedersi |
58 |
sì di
vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve». |
|
58 |
di vettovaglie, in modo
che l’assedio causato dalla neve non consenta al vescovo
di Novara quella vittoria, che non sarebbe facile
conquistare in altro modo." |
|
Il novarese Dolcino Tornielli, appartenente alla setta
dei Fratelli Apostolici fondata dal parmense Gherardo
Segarelli, dopo che quest’ultimo fu bruciato vivo nel
1296, raccolse un gran numero di seguaci nel Trentino e
in altre regioni dell’Italia settentrionale. Anche egli,
non diversamente da Maometto, si vantava profeta,
predicando, tra l’altro, l’abolizione della gerarchia
ecclesiastica e la comunanza dei beni e delle donne.
Contro di lui fu bandita da Clemente V una crociata,
alla quale parteciparono vescovi, feudatari e comuni.
Costretto ad arrendersi per mancanza di cibo e per la
caduta di un’abbondante nevicata sul monte Zebello (nel
Biellese), ove si era rifugiato con i suoi seguaci, fu
condannato a morte e giustiziato nel 1307. Il verso 60
contiene un’allusione alla strenua resistenza che
Dolcino e i suoi fedeli opposero all’esercito dei
Crociatí. I critici hanno fornito varie interpretazioni
in merito al consiglio che Maometto prega di trasmettere
a Dolcino. "E’ scherno verso l’aspettato compagno che
non potrà rompere la cerchia di nemici e di ghiaccio, o
ingenua solidarietà? Ammirazione per lo strenuo
combattente, o derisione dei suoi sforzi?" si chiede lo
Zingarelli, laddove il VossIer è convinto che la visione
di Dolcino assediato e ridotto ad arrendersi per fame
riempia di gioia Maometto. Considerazioni del genere
rischiano tuttavia - in un canto come questo. nel quale
l’attenzione del Poeta è in primo luogo presa dal modo
della pena, dall’orrore (che in essa visibilmente si
esprime) per quanto vi è di peccaminoso nell’aizzare
all’odio, nel negare, attraverso la discordia e la
anarchia, i principii dell’umano convivere - di apparire
eccessive. Opportunamente scrive in merito il Fubini:
"moto e vita porta nel canto quella improvvisa
profezia-consiglio di Maometto, tanto diversa nella sua
vivacità da tutto quel che precede e sulla quale vano
sarà al solito voler psicologicamente sottilizzare,
discutendo sulla opportuni. tà di un consiglio
effettivamente inutile o su di una pretesa malizia di
quel dannato, per non sentirvi altro che una commossa
partecipazione del Poeta a un avvenimento prossimo al
tempo in cui scriveva, la commozione per quella difesa
disperata di fra Dolcino (che non implica
un’approvazione dell’opera dell’eretico)". |
61 |
Poi che l'un
piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese. |
|
61 |
Dopo che aveva sollevato uno dei piedi
per andarsene, Maornetto mi disse queste parole; quindi
lo riappoggiò in terra per allontanarsi. |
|
Anche l’atteggiamento di Maometto, il quale parla
tenendo un piede sospeso e lo poggia a terra solo dopo
aver terminato la sua profezia, è stato variamente
interpretato. V. Rossi lo ha definito un atteggiamento
da "ballerino" (metafora in verità non troppo indovinata
tenuto conto di quelli che sono gli elementi di maggior
rilievo del canto: l’orrore, l’osservazione spietata e
precisa di piaghe e mutilazioni), mentre il Momigliano,
per caratterizzarlo, ricorre anch’egli a un’immagine
umoristica, quella della "cicogna". Dante, secondo
questi critici. si prenderebbe gioco del dannato,
scomponendo analiticamente nelle sue fasi successive un
movimento che, nella normale percezione delle cose,
cogliamo nella sua unità. Effettìvamente in questa
terzina Maometto prende ai nostri occhi l’aspetto di un
manichino, di un fantoccio privo di vita e mosso da una
volontà che non è la sua (il Fubinì parla, a proposito
di questa e altre immagini analoghe del poema, di
"rigidità burattinesca", senza peraltro vedere, nel caso
di Maometto, l’aspetto tragico - espressione della sua
condizione di dannato - che essa riveste). |
64 |
Un altro,
che forata avea la gola
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch'una orecchia sola, |
|
64 |
Un altro, che aveva la
gola bucata e il naso mozzato fin sotto le ciglia, e non
aveva più che un solo orecchio |
67 |
ristato a
riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia, |
|
67 |
fermatosi a guardare per
lo stupore con gli altri, prima degli altri spalancò la
gola, che da ogni parte era di fuori insanguinata, |
70 |
e disse: «O
tu cui colpa non condanna
e cu' io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna, |
|
70 |
e disse: "O tu che nessun
peccato condanna e che io conobbi in Italia, se non mi
trae in inganno |
73 |
rimembriti
di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina. |
|
73 |
ricordati di Pier da
Medicina, se mai torni a vedere la dolce pianura che
scende da Vercelli a Marcabò. |
|
Su Pier da Medicina non si hanno notizie sicure.
Appartenne ad una famiglia nobile che governò l’omonima
cittadina Romagnola; di lui i commentatori antichi
dicono che fu promotore di discordie tra i nobili di
Bologna e tra i comuni di Bologna e Firenze. Benvenuto
da Imola sostiene che Dante fu ospite alla corte di
questi feudatari.
La pianura padana è indicata (verso 75), attraverso una
perifrasi, come quella che si stende da Vercelli al
castello di Marcabò (o Marcamò), edificato dai Veneziani
alla foce del Po di Primaro, a difesa dei loro commerci.
Questa perifrasi è pervasa da un senso di struggente
nostalgia e può essere, per taluni aspetti, avvicinata a
quella con cui Francesca designa la sua terra natale
(nel verbo dichina è come una eco della stanchezza che
nelle parole di Francesca - canto V, versi 98-99 -
spinge il Po a cercar pace, insieme con i suoi
affluenti, nell’Adriatico). |
76 |
E fa saper
a' due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l'antiveder qui non è vano, |
|
76 |
E informa i due più
ragguardevoli cittadini di Fano, messer Guido e anche
Angiolello, che se la preveggenza nell’inferno non è
errata, |
79 |
gittati
saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d'un tiranno fello. |
|
79 |
saranno gettati fuori
della loro nave, e affogati presso Cattolica per il
tradimento di uno sleale tiranno. |
|
Guido del Cassero e Angiolello di Carignano furono
uccisi, secondo alcuni, nel 1312, poco dopo che
Malatestino da Verrucchio (cfr. canto XXVII, verso 46)
successe al padre nella signoria di Rimini. Il fatto non
è comunque storicamente accertato. Così il Lana illustra
la profezia di Pier da Medicina: Guido del Cassero e
Angiolello di Carignano "furon richiesti da Malatestino
de’ Malatesti da Arimino di parlamentare insieme per
provvedere al buono stato della contrada; e ordinonno lo
parlamento alla Cattolica, per luogo comunale: seppe sì
ordinare lo detto Malatestino, ch’elli li fece
uccidere". |
82 |
Tra l'isola
di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica. |
|
82 |
Fra le isole di Cipro e di Maiorca
Nettuno non vide mai un misfatto così grande, né da
parte di pirati, né da parte di Greci. |
|
Nota finemente il Malagoli che "l’accento di sdegno del
peccatore contro il tradimento fello di Malatestino si
congiunge al senso della propria colpa, che emana dalle
prime parole (tu cui colpa non condanna, verso 70) e al
tremito di delicati affetti che anima i versi
successivi; e anche in seguito, quando l’anima
presenterà a Dante un altro peccatore, il senso del
peccato e della colpa spira dalle parole (versi 96-99)". |
85 |
Quel
traditor che vede pur con l'uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno, |
|
85 |
Quel traditore (Malatestino
da Verrucchío, cieco d’un occhio) che vede soltanto con
un occhio, e signoreggia la città che uno che è qui con
me vorrebbe non aver mai visto, |
88 |
farà venirli
a parlamento seco;
poi farà sì, ch'al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco». |
|
88 |
li inviterà a un
abboccamento con lui; dopo farà in modo che essi non
avranno più bisogno né di voti né di preghiere per
scampare dal vento dei monte Focara". |
|
Il Lana spiega che "Focara è un luogo sopra mare nella
Marca, tra Pesaro e la Cattolica, in lo qual luogo è
spesso di gran fortune [tempeste]; e usano molto li
marinari, che si trovano in quello luogo al tempo della
fortuna, di pregare Dio e li santi e di fare molti
voti"; i versi 89-90 stanno quindi a significare che
Guido e Angiolello saranno uccisi prima di giungere in
quel luogo. L’atroce fatto di sangue che il dannato
pronostica a Dante non ha nulla di indeterminato, non si
cela nelle immagini enimmatiche che rendono così
potentemente suggestive altre profezie di dannati (per
esempio quella di Vanni Fucci). Ma la cornice in cui
esso si svolge conferisce alle sue esatte determinazioni
(la perifrasi del verso 85 incombe tuttavia minacciosa,
senza circostanziarsi: il traditor che vede pur con
l’uno vi assume dimensioni gigantesche: quelle dei male
insondabile) il respiro della tragedia. Osserva il
Momigliano che la terzina 82-84 "dà al fatto proporzioni
straordinarie" e che "l’orizzonte immenso del
Mediterraneo lo allarga fantasticamente", mentre
l’espressione poi farà sì, ch’al vento di Focara... "ha
la medesima latitudine di quell’orizzonte marino. E per
effetto di questo racconto di stile così unitario il
truce fatto è circondato costantemente da una potente
ventata di fortunale". |
91 |
E io a lui:
«Dimostrami e dichiara,
se vuo' ch'i' porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara». |
|
91 |
E io a lui: "Mostrami e
spiegami, se vuoi che io rechi nel mondo notizie di te,
chi è colui al quale è stata dolorosa la vista (di
Rimini)". |
94 |
Allor puose
la mano a la mascella
d'un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella. |
|
94 |
Allora appoggiò la mano
sulla mascella di un suo compagno e gli aprì la bocca,
gridando: "E’ proprio lui, e non parla. |
97 |
Questi,
scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che 'l fornito
sempre con danno l'attender sofferse». |
|
97 |
Costui,
esiliato (da Roma), tolse a Cesare ogni esitazione,
sostenendo che chi è preparato sempre sopporta con danno
l’indugio". |
100 |
Oh quanto mi
pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch'a dir fu così ardito! |
|
100 |
Oh quanto mi
sembrava avvilito con la lingua recisa nella gola,
Curione, che fu così audace nel parlare! |
|
Secondo quanto narra Lucano nella Farsaglía (I, versi
261 sgg.), il tribuno della plebe Caio Curione,
costretto a fuggire da Roma perché troppo apertamente
aveva preso le parti di Cesare, convinse il triumviro
reduce dalla Gallia a varcare il Rubicone con queste
parole: "Mentre i partiti trepidano, non consolidati da
alcuna forza, tronca gli indugi: è sempre stato dannoso
dilazionare le cose già pronte". Egli appare agli occhi
di Dante come il vero responsabile della guerra civile
tra Cesare e Pompeo, e quìndi, in quanto seminatore di
discordia, colpevole. "Considerato in se stesso e nelle
sue conseguenze immediate, il consiglio da lui dato a
Cesare fu la causa della sua dannazione; ma fu quel
consiglio che liberò al volo inenarrabile il sacrosanto
segno dell’aquila [cfr, Paradiso canto VI) e scatenò gli
eventi onde per volere di Roma nacque l’Impero. Talché
se Cesare, " primo principe sommo ". è tra gli spiriti
magni nella luce del nobile castello (Inferno IV, verso
123) e Curione quaggiù nella nona bolgia sozza, questi
ci appare come lo strumento inconsapevole e la vittima
tragica della sacra volontà della storia." (RossiFrascino)
Da notare la cruda contrapposizione, messa in maggiore
evidenza dalla rima, tra l’audacia di un tempo -
irresponsabile leggerezza di chi sommerse in Cesare ogni
esitazione - e lo sbigottimento attuale del dannato,
posto non solo in condizione di non poter parlare, di
non poter giustificare in un modo qualsiasi il suo
operato, ma condannato quasi a non essere più in grado
di afferrarne il significato. Privato della parola,
Curione sembra non aver più nemmeno la facoltà di
pensare: non ha vita propria, è ormai soltanto un
fantoccio dolorante, un monito terribile proposto alla
meditazione di chi ha ancora la possibilità di salvarsi. |
103 |
E un ch'avea
l'una e l'altra man mozza,
levando i moncherin per l'aura fosca,
sì che 'l sangue facea la faccia sozza, |
|
103 |
E uno che aveva entrambe
le mani tagliate, alzando i moncherini nell’aria
tenebrosa, così che il sangue gli imbrattava il volto, |
106 |
gridò: «Ricordera'ti
anche del Mosca,
che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la gente tosca». |
|
106 |
urlò: "Ti ricorderai anche
del Mosca, che dissi, ahimè!, "Cosa fatta non può
disfarsi, parole che furono origine di sventure per i
Toscani". |
109 |
E io li
aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per ch'elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta. |
|
109 |
E io replicai: "E rovina
della tua stirpe"; per cui egli, aggiungendo dolore a
dolore, se ne andò via come una persona esacerbata e
fuori di sé. |
|
A Mosca dei Lamberti (cfr. Inferno VI, verso 80) gli
storici fiorentini del Trecento fanno risalire la
divisione dei cittadini di Firenze in Guelfi e
Ghibellini, seguita all’uccisione (1215), ad opera della
famiglia degli Amidei, di Buondelmonte dei Buondelmonti.
Non avendo quest’ultimo mantenuto fede alla promessa di
sposare una fanciulla degli Amidei, costoro si
radunarono insieme ai loro consorti per decidere sul
modo di punirlo. Fu in quell’occasione che "il Mosca de’
Lamberti disse la mala parola: " Cosa fatta, capo ha ",
cioè che fosse morto: e così fu fatto" (Villani -
Cronaca V, 38). Mosca dei Lamberti morì a Reggio, dove
ricopriva la carica di podestà, nel 1243. I Lamberti
furono banditi da Firenze, insieme con gli altri
Ghibellini, nel 1258 ed esclusi dai provvedimenti di
amnistia dei 1268 e 1280, anno a partire dal quale non
si sa quasi più nulla di loro. La presentazione che il
Poeta fa della figura di questo peccatore, promotore
anch’egli, come Curione, di una lunga vicenda di odi e
di violenze (ma annoverato, nell’episodio di Ciacco, tra
coloro ch’a ben far puoser, li ‘ngegni), è tragica.
priva delle sottolineature grottesche le quali rendono
mostruose, irriducibili ad una misura umana, le figure
di Maometto o di Curione. Mosca è consapevole del male
che ha arrecato a sé (la dannazione), a Firenze, alla
sua stirpe. "Lo lacerano il sentimento della patria e
quello della famiglia: e questo fa più acuto l’altro.
Botta e risposta, dogliose ed acri, che riconducono il
pensiero nostro alla scena tra il Poeta e Farinata." (Crescini) |
112 |
Ma io rimasi
a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch'io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo; |
|
112 |
Ma io restai a osservare
fissamente la schiera dei dannati, e vidi una cosa, che
avrei timore di riferire da solo, senz’altra
testimonianza, |
115 |
se non che
coscïenza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi pura. |
|
115 |
ma mi rende sicuro la
coscienza, che è la valente compagnia che infonde
coraggio all’uomo sotto la protezione della sua purezza. |
118 |
Io vidi
certo, e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia; |
|
118 |
Senza alcun dubbio vidi, e
mi pare ancora di vederlo, un tronco privo di testa
camminare come camminavano gli altri dannati della
sciagurata schiera |
121 |
e 'l capo
tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!». |
|
121 |
e con la mano teneva
sospeso per i capelli il capo mozzato come fosse stato
una lanterna; e quello ci guardava, e diceva: "Ohimè!" |
|
Il dannato che avanza, con passo in tutto simile a
quello dei suoi compagni di pena (come nota il
Momigliano, dopo che il verso 118 ha sottolineato
"l’allucinante evidenza della visione", la frase
successiva "mette dinanzi agli occhi l’incredibile
naturalezza di quel camminare di un busto senza capo"),
tenendo in mano la propria testa a guisa di lanterna
(immagine suggerita dalla presenza nella testa degli
occhi e del cerebro - cfr. verso 140 - l’organo
attraverso cui istituiamo un ordine, una luminosa
evidenza nel mondo e in noi stessi), è Bertran de Born,
signore dei castello di Hautefort in Aquitania e
rinomato poeta provenzale. Vissuto nella seconda metà
del secolo XII, fu amico di Enrico Il, re d’Inghilterra
e duca d’Aquitania, e del figlio di lui, Enrico III
soprannominato il Re giovane, che il padre aveva
associato al trono. Dante accoglie la voce second o la
quale Enrico III si ribellò al padre dietro i consigli
di Bertran de Born.
Acuta e suggestiva è l’analisi che della presentazione
di questa figura fa V. Rossi: "Il busto, privo di testa
e quindi senza occhi, camminava guidato da’ " suoi "
occhi, come il capo privo del busto e delle gambe,
portato dalle " sue " gambe. Ma nella potente frase
dantesca (verso 124) il busto e il capo diventano una
cosa sola (di sé... a sé) , perché, scissi, li unifica
l’unità dello spirito... La volontà dello spirito uno
s’attua in associazioni di moti novissime e miracolose
(versi 128-129), secondo la novissima e miracolosa
condizione del corpo duplice ed uno... Lo sfondo
insanguinato (verso 2) svanisce ormai nella
lontananza... la fantasia del Poeta appare liberata
dalla purpurea ossessione del sangue, è tutta assorta in
un religioso stupor di miracolo". |
124 |
Di sé facea
a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser può, quei sa che sì governa. |
|
124 |
Con gli occhi della
propria testa guidava il suo corpo, ed erano due parti
in un corpo e un corpo in due parti: come ciò può
avvenire, lo sa Dio che così dispone. |
127 |
Quando
diritto al piè del ponte fue,
levò 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue, |
|
127 |
Quando si trovò proprio
alla base del ponte, levò alto il suo braccio insieme
con la testa, per farci giungere meglio le sue parole, |
130 |
che fuoro:
«Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa. |
|
130 |
che furono: "Osserva
dunque la pena angosciosa tu che, vivo, te ne vai
guardando i morti: vedi se ce n’è una straziante come la
mia. |
133 |
E perché tu
di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti. |
|
133 |
E affinché tu possa recare
notizie di me, sappi che io sono Bertran de Born, colui
che diede al Re giovane i cattivi consigli. |
136 |
Io feci il
padre e 'l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d'Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli. |
|
136 |
Feci diventare il padre e
il figlio nemici tra loro: Achitofel non causò maggior
danno ad Assalonne e a Davide con i suoi perfidi
incitamenti. |
|
Achitofel, consigliere di Davide, istigò Assalonne a
ribellarsi al padre e ad ucciderlo (II Samuele XV, 12
sgg.; XVI, 15 sqg.; XVII, I sgg.), Riguardo
all’espressione in sé ribelli, il Mattalia rileva che,
essendo tanto Enrico Il d’Inghilterra che suo figlio
Enrico III investiti dell’autorità regia, "erano due-uno
[cfr. verso 125; un’espressione analoga ricorre nella
descrizione della seconda metamorfosi della bolgia dei
ladri; Interno XXV, 77]. e ognuno, ribellandosi
all’alter ego, veniva a trovarsi in stato di ribellione
anche contro se stesso. Solo così interpretando si può
spiegare come l’idea del reato di ribellione si possa
applicare a un padre nei confronti del figlio". |
139 |
Perch' io
parti' così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone. |
|
139 |
Poiché io divisi persone
così unite, reco il mio cervello diviso, misero me!,
dalla sua orìgine (principio: il midollo spinale) che
sta in questo busto. |
142 |
Così
s'osserva in me lo contrapasso». |
|
142 |
Così si svolge in me
l'esatto contraccambio d'una colpa commessa in
precedenti vite». |
|
|
|
 |
 |
 |
 |
|