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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
INFERNO
CANTO XXXIV° |
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1 |
«Vexilla
regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni». |
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1 |
"Si avanzano i vessilli del re
dell’inferno (le sei ali di Lucifero) verso di noi;
guarda perciò davanti a te" disse Virgilio "se riesci a
scorgerlo." |
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Le prime tre parole del primo verso sono quelle con cui
inizia un inno sacro, composto nel VI secolo dal vescovo
di Poitiers Venanzio Fortunato, nel quale è celebrata la
Croce, vessillo di Cristo. Ad esse "l’aggiunta del
genitivo interni conferisce il senso del più ironico
disprezzo verso l’angelo decaduto [Lucifero]" (Vaturi).
Il verbo di moto prodeunt riferito ad una realtà
immobile - la massa del corpo di Lucifero, le cui ali
percuotono l’aria senza riuscire a spostarlo dal luogo
in cui è confitto - presenta paradossalmente l’avanzare
dei due poeti come una stasi, un’attesa, un’incapacità
di procedere sotto l’incombere di un immane pericolo,
laddove questo pericolo è di fatto ormai vinto. La lunga
guerra sì del cammino e sì della pietate (canto Il,
versi 43) ha fortificato l’animo di Dante; egli
contemplerà Lucifero con lucida curiosità, lo definirà
nel suo aspetto esteriore e nei significati simbolici
che in lui s’incarnano, ma non ne sarà atterrito. Il suo
terrore sarà astrattamente - attraverso giochi di
parole, che in realtà lo smentiranno (versi 25-27) -
enunciato, mentre la sua meraviglia di fronte a questa
immane, muta mole - animata da un movimento regolare e
meccanico - si convertirà in poesia. |
4 |
Come quando
una grossa nebbia spira,
o quando l'emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che 'l vento gira, |
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4 |
Come quando una densa
nebbia si diffonde, o quando il nostro emisfero si
abbuia, appare da lontano un mulino la cui ruota è fatta
girare dal vento, |
7 |
veder mi
parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta. |
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7 |
mi sembrò allora di vedere
una tale macchina; poi, a causa del vento; mi rifugiai
dietro a Virgilio, poiché non vi era altro riparo. |
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I giganti erano apparsi a Dante, in un indeciso
crepuscolo, come torri: inanimati, equidistanti l’uno
dall’altro, incrollabili. Un ordine geometrico e morto
li rendeva, da lontano, più che temibili, oggetto di
ammirato stupore. Lucifero, in un analogo crepuscolo,
appare anch’esso come un’opera dell’ingegno umano, un
prodotto della tecnica, ma più complicato; meno maestoso
perché, a causa dello svolazzare delle sue ali, è privo
dell’assoluta immobilità che suggeriva, per i giganti,
la similitudine delle torri, si presenta come un enigma
che il nostro intelletto deve sciogliere. E’ una
macchina di cui Dante cercherà di capire il congegno, il
funzionamento e il compito al quale è adibita. Il
processo di disumanizzazione della realtà infernale
raggiunge in Lucifero il suo culmine.
Sommaria e convenzionale sarà la menzione che il Poeta
farà della sua bruttezza (versi 34-36).
Il suo interesse sarà maggiormente attratto dal
funzionamento di questo disorganico coacervo di forme. |
10 |
Già era, e
con paura il metto in metro,
là dove l'ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro. |
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10 |
Già mi trovavo, e con
paura lo ricordo nei miei versi, là dove i dannati erano
tutti coperti (dal ghiaccio), e trasparivano come un
fuscello rimasto incorporato nel vetro. |
13 |
Altre sono a
giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com' arco, il volto a' piè rinverte. |
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13 |
Alcuni stanno distesi; altri eretti, chi con la testa e
chi cori i piedi in alto; altri, piegati all’indietro,
raggiungono, a guisa di arco, col volto i piedi. |
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Nessuna manifestazione di vita è presente nei dannati
della quarta zona di Cocito (la Giudecca, nome con il
quale erano designati nel Medioevo i quartieri abitati
dagli Ebrei e che qui ricorda la presenza in essa di
Giuda Iscariota, il traditore di Gesù, maciuIlato da una
delle tre bocche di Lucifero): ivi sono puniti i
traditori dei benefattori o, secondo altri, coloro che
tradirono le due supreme autorità preposte da Dio
all’ordinato convivere degli uomini: la Chiesa e
l’Impero. Osserva il Vaturi: "finora le anime dei
peccatori si agitavano, gridavano, imprecavano, si
contorcevano sotto la ferula del supplizio infernale, ma
davano fremiti di vita; qua giù, nell’ultimo pozzo, ove
il più orrendo peccato chiama il più orrendo supplizio,
anche la vita di oltre tomba è scomparsa, la seconda
morte è assoluta: non un nome, non l’accenno di una
personalità qualsiasi della esistenza terrena; non sono
più anime, sono i fossili di una stratificazione
geologica". |
16 |
Quando noi
fummo fatti tanto avante,
ch'al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch'ebbe il bel sembiante, |
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16 |
Quando ci fummo inoltrati
tanto, che Virgilio ritenne opportuno mostrarmi colui
che era stato il più bello degli angeli, |
19 |
d'innanzi mi
si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t'armi». |
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19 |
si scostò e
mi fece fermare, dicendo: "Ecco Dite (è il nome di
Plutone, re degli inferi, nella mitologia) ed ecco il
luogo ove occorre che tu ti armi di coraggio". |
22 |
Com' io
divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,
però ch'ogne parlar sarebbe poco. |
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22 |
Non chiedere, o lettore, quale gelo allora mi invase e
come la voce mi si fermò, poiché non lo scrivo, ogni
parola essendo inadeguata ad esprimerlo. |
25 |
Io non mori'
e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,
qual io divenni, d'uno e d'altro privo. |
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25 |
Io non rimasi né vivo né morto: immagina ormai da solo,
se appena hai un poco d’intelligenza, come divenni,
privo sia di vita che di morte. |
28 |
Lo 'mperador
del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno, |
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28 |
Il sovrano dell’inferno
sporgeva fuori dal ghiaccio a partire da metà del petto;
e c’è più proporzione fra me e un gigante, |
31 |
che i
giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant' esser dee quel tutto
ch'a così fatta parte si confaccia. |
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31 |
che fra i giganti e le sue
braccia: vedi ormai quanto deve essere grande l’intera
massa di quel corpo perché sia proporzionato a simili
braccia. |
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La presentazione di Lucifero nei versi 28-29 è
grandiosa, ma non suggerisce l’idea di una forza
contenuta, come avveniva per Farinata (dalla cintola in
su tutto ‘l vedrai) o anche per i giganti (torreggiavan
di mezza la persona). Lucifero appare come una massa
inerte, preclusa ad ogni svolgimento in senso spirituale
e drammatico, che colpisce per un attimo
l’immaginazione, ma della quale l’intelletto non tarda a
svelare, attraverso un processo di misurazione, la pura
esteriorità. |
34 |
S'el fu sì
bel com' elli è ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto. |
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34 |
Se fu così bello com’è
brutto attualmente, e (ciononostante) si ribellò al suo
Creatore, è ben naturale che ogni male derivi da lui. |
37 |
Oh quanto
parve a me gran maraviglia
quand' io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia; |
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37 |
O come mi sembrò cosa
degna di grande meraviglia vedere che la sua testa aveva
tre facce! Una davanti, ed era rossa; |
40 |
l'altr' eran
due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta: |
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40 |
delle altre due, che si
congiungevano a questa sorgendo in corrispondenza della
parte mediana di ciascuna spalla, e si congiungevano fra
di loro nella parte mediana del volto dove alcuni
uccelli hanno la cresta, |
43 |
e la destra
parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. |
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43 |
la destra appariva di un
colore tra il bianco e il giallo; la sinistra appariva
di un colore simile a quello delle popolazioni
originarie della regione da cui il Nilo scende a valle. |
46 |
Sotto
ciascuna uscivan due grand' ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid' io mai cotali. |
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46 |
Sotto ciascuna faccia
sporgevano due grandi ali, proporzionate alle dimensioni
di un così grande uccello: non vidi mai vele di
imbarcazioni marine così grandi. |
49 |
Non avean
penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello: |
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49 |
Non avevano penne, ma il
loro aspetto era quello delle ali del pipistrello; e le
agitava, in modo che da lui si originavano tre venti: |
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Convertito in pura materia, passività, peso, l’angelo
che osò ribellarsi al suo Creatore, ne rappresenta la
più compiuta antitesi; "perciò i dati particolari della
sua condizione debbono essere interpretati in rapporto
all’idea esattamente contraria: luce-tenebra,
perfezíone-imperfezione, bellezza-bruttezza,
spiritualità-materialità... attività-passività,
armonia-disarmonia, ecc. Dio, ad esempio, é puro atto, e
Satana pura stasi o automatismo meccanico; Dio è
armoniosamente uno-trino in sostanza-persone, mentre
Satana è uno nel gigantesco corpo e trino solo nella
testa; Dio è centro dell’universo, mentre Satana patisce
al centro dell’universo fisico il peso convergente di
tutta la materia ch’è, teologicamente, pura e bruta
passività, e l’elemento più irriducibile a Dio" (Mattalia).
In particolare, le tre facce di Lucifero,
contrapponendosi al le tre persone della Trinità,
definite da Dante (canto III, versi 5-6), sulla base
degli insegnamenti della teologia, Potestate, Sapienza,
Amore, simboleggiano l’impotenza o l’invidia che da essa
consegue (la faccia esangue, tra bianca e gialla),
l’ignoranza (la faccia nera, del colore delle tenebre,
la luce simboleggiando la chiarezza intellettuale),
l’odio (la faccia vermiglia; in quanto amore volto al
male, l’odio è indicato attraverso lo stesso colore che
presso i poeti medievali definiva l’amore).
Per quel che riguarda le ali di Lucifero, il loro numero
è uguale a quello delle ali dei serafini, gli angeli più
vicini a Dio, ma, a differenza di quelle dei serafini,
piumate e splendenti, quelle del sovrano dell’inferno
sono prive di penne e nerastre. |
52 |
quindi
Cocito tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. |
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52 |
perciò l’intero Cocito era trasformato
in ghiaccio. Piangeva con sei occhi, e su tre menti
faceva gocciare lagrime miste a bava sanguigna. |
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Il pianto parrebbe suggerire la presenza in Lucifero dì
un residuo di coscienza, ma, col portare la nostra
attenzione sul particolare dei sei occhi, al quale
simmetricamente ed inevitabilmente - quasi a conclusione
di un lucido, spietato sillogismo - risponde quello dei
tre menti, il Poeta impedisce che questa nostra
supposizione prenda consistenza e si determini.
L’accenno alle lagrime di Lucifero è una constatazione
oggettiva, registrata allo stesso titolo di altre
caratteristiche dell’enorme dificio che Dante si trova
davanti o, meglio, ad esse contrapposta al solo fine di
inquadrarla in una impassibile definizione concettuale.
L’insistenza sul dato numerico (tre facce... due grand’ali...
sei occhi... tre menti; e, nella terzina 55, un
peccatore... tre ne facea così dolenti) ribadisce il
carattere disumano di questo fenomeno naturale, di
questo congegno disarmonico nel quale non è dato
cogliere il vestigio di alcuna spiritualità, e il cui
significato è interamente determinato, attraverso
l’allegoria, dall’esterno. |
55 |
Da ogne
bocca dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti. |
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55 |
In ogni bocca frantumava
con i denti un peccatore, come una gramola (maciulla:
strumento che serve a tritare la canapa o il lino), in
modo da tormentarne così tre. |
58 |
A quel
dinanzi il mordere era nulla
verso 'l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla. |
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58 |
Per quello che era
maciullato nella bocca anteriore il mordere di Lucifero
era poca cosa rispetto al graffiare dei suoi artigli,
tanto che a volte la sua schiena restava interamente
priva di pelle. |
61 |
«Quell'
anima là sù c'ha maggior pena»,
disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. |
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61 |
"Quel dannato lassù, che è
sottoposto ad un maggiore tormento" disse Virgilio, "è
Giuda Iscariota, il quale tiene la testa dentro la bocca
di Lucifero e agita fuori di essa le gambe. |
64 |
De li altri
due c'hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!; |
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64 |
Degli altri due, che hanno
la testa rovesciata in basso, quello che pende dalla
faccia di colore nero è Bruto, vedi come si divincola! e
non emette lamento!; |
67 |
e l'altro è
Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto». |
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67 |
l’altro, che appare così
muscoloso, è Cassio. Ma sta scendendo nuovamente la
notte (i due poeti hanno dunque impiegato ventiquattro
ore per percorrere tutto l’inferno), e ormai occorre
allontanarci, poiché abbiamo veduto tutto (l’inferno)." |
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Il castigo di Bruto (impassibile nel dolore, ricorda
Capaneo e Giasone) è uguale a quello di Cassio: entrambi
infatti si macchiarono di uno stesso delitto,
ricambiando col tradimento la generosità di Cesare, dal
Poeta menzionato nel Convivio (IV, V, 12) come "primo
prencipe sommo", ed uccidendolo (44 a. C.). Più grave è
la pena dì Giuda Iscariota, che consegnò il Figlio di
Dio ai suoi persecutori: egli si trova con la testa
dentro una delle bocche di Lucifero e con il corpo,
sottoposto ai suoi graffi, fuori di essa, "quasi in
contrappasso di ciò che è scritto nel vangelo di San
Luca che Satana era entrato in Giuda a fargli commettere
la maggiore empietà" (Vaturi). Gli uccisori di Cesare e
di Cristo si sono macchiati, agli occhi di Dante, delle
più gravi colpe che un uomo possa commettere, per aver
attentato, nei loro fondatori, ai due ordinamenti da Dio
assegnati a guida dell’umanità, quali " rimedi " contro
l’infermità del peccato dopo la colpa di Adamo: nel
campo temporale l’Impero, nel campo spirituale la
Chiesa.
Lucifero, paragonato in precedenza per il moto delle sue
ali ad un mulino a vento (ed un senso di desolata
inutilità si sprigionava da questo paragone: nell’eterno
girare delle pale era come adombrato lo sforzo fiacco ed
impotente delle ali del re dell’inferno, pigramente
svolazzanti, incapaci di conferirgli un fremito di vita,
di sottrarlo alla sua prigione di ghiaccio, di
riportarlo nei cieli dai quali "come folgore", secondo
quanto è detto nel vangelo di Luca, era precipitato),
appare ora al Poeta come una maciulla: la sua malvagità
non ha nulla di personale, si esprime nel moto preciso
di una macchina. |
70 |
Com' a lui
piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l'ali fuoro aperte assai, |
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70 |
Gli avvinsi il collo con
le braccia secondo la sua volontà; ed egli scelse il
momento ed il luogo opportuno; e quando le ali furono
abbastanza aperte, |
73 |
appigliò sé
a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra 'l folto pelo e le gelate croste. |
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73 |
si afferrò ai fianchi
villosi: poi si calò di ciuffo in ciuffo nello spazio
compreso tra il folto pelo e la superficie ghiacciata. |
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A differenza delle altre potenze infernali (anche le
torri impassibili poste a guardia del nono cerchio
avevano avuto reazioni riconducibili ad un carattere
umano all’appressarsi dei due pellegrini) Lucifero non
si è accorto della presenza di Dante e di Virgilio.
Nemmeno ora che i due si servono del suo pelo per
iniziare il cammino che li porterà fuori dell’inferno ne
è consapevole. |
76 |
Quando noi
fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l'anche,
lo duca, con fatica e con angoscia, |
|
76 |
Quando ci trovammo nel
punto in cui la coscia si articola, proprio in
corrispondenza della parte più grossa dell’anca (è la
parte centrale del corpo di Lucifero e corrisponde al
centro dell’universo), Virgilio, faticosamente ed
affannosamente, |
79 |
volse la
testa ov' elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com' om che sale,
sì che 'n inferno i' credea tornar anche. |
|
79 |
si girò portando la testa
in direzione dei piedi di Lucifero, e si aggrappò al
pelo come chi sale, in modo che io credevo di tornare
ancora nell’inferno. |
82 |
«Attienti
ben, ché per cotali scale»,
disse 'l maestro, ansando com' uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male». |
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82 |
"Tienti stretto, poiché
per scale di tal genere" disse Virgilio, ansimando come
un uomo stanco, "occorre allontanarsi dall’inferno." |
85 |
Poi uscì
fuor per lo fóro d'un sasso
e puose me in su l'orlo a sedere;
appresso porse a me l'accorto passo. |
|
85 |
Poi uscì attraverso
l’apertura di una roccia, e mi fece sedere sull’orlo di
essa; quindi diresse verso di me con cautela il suo
passo (staccandosi così dal pelo di Lucifero). |
88 |
Io levai li
occhi e credetti vedere
Lucifero com' io l'avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere; |
|
88 |
Volsi in alto lo sguardo.
e pensai di vedere Lucifero nella posizione in cui lo
avevo lasciato; e vidi invece che teneva le gambe
rivolte in alto; |
91 |
e s'io
divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch'io avea passato. |
|
91 |
e se io allora mi turbai,
lo immagini la gente ignorante, che non comprende (come
non avevo compreso io) quale è il punto che avevo
oltrepassato (il centro della terra). |
94 |
«Lèvati sù»,
disse 'l maestro, «in piede:
la via è lunga e 'l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede». |
|
94 |
"Alzati in piedi" disse
Virgilio "poiché la via che dobbiamo percorrere è lunga
e il cammino malagevole, e già il sole ritorna all’ora
media (circa le sette e mezza del mattino) fra la prima
ora canonica (corrisponde alle sei) e la terza
(corrisponde alle nove)." |
97 |
Non era
camminata di palagio
là 'v' eravam, ma natural burella
ch'avea mal suolo e di lume disagio. |
|
97 |
Non ci
trovavamo là in una sala di palazzo,, ma in un
sotterraneo naturale che aveva il suolo irregolare e
mancanza di luce. |
100 |
«Prima ch'io
de l'abisso mi divella,
maestro mio», diss' io quando fui dritto,
«a trarmi d'erro un poco mi favella: |
|
100 |
"Maestro,
prima che io mi stacchi dall’inferno", dissi quando fui
in piedi, "parlami un poco per togliermi dal dubbio. |
103 |
ov' è la
ghiaccia? e questi com' è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc' ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». |
|
103 |
Dov’è il ghiaccio? e come
mai Lucifero vi è confitto così rovesciato? e come, in
così breve tempo, il sole ha fatto il percorso dalla
sera alla mattina?" |
106 |
Ed elli a
me: «Tu imagini ancora
d'esser di là dal centro, ov' io mi presi
al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. |
|
106 |
Ed egli: "Tu ritieni di
essere ancora dall’altra parte del centro della terra,
là dove mi afferrai al pelo del maligno verme che
perfora il mondo. |
109 |
Di là fosti
cotanto quant' io scesi;
quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto
al qual si traggon d'ogne parte i pesi. |
|
109 |
Ti trovasti dall’altra
parte per tutto il tempo durante il quale io scesi;
allorché mi girai, oltrepassasti il punto (il centro
della terra) verso il quale si portano da ogni direzione
i pesi. |
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La seconda parte del canto, nella quale è descritta
l’uscita dei due poeti dall’inferno e il cammino da loro
percorso fino alla superficie dell’emisfero australe, è
generalmente ritenuta meno poetica della prima, in
quanto, se ci fornisce ragguagli sulla cosmologia di
Dante, rimarrebbe al livello dell’informazione
necessaria per comprendere i fatti, ma scarsamente
rilevante dal punto di vista espressivo. Eppure
affiorano in questa parte momenti di autentica
commozione, anche se si tratta di una commozione
mediata, che ha origine nell’intelletto e dai grandi
problemi dell’intelletto trae il suo alimento. Tale è ad
esempio il momento in cui Virgilio con fatica e con
angoscia supera il centro dell’universo. Tale è anche
questa risposta di Virgilio al discepolo, nella quale il
rigore logico conferisce risalto ad una profonda,
religiosa ansia di conoscenza e culmina in espressioni
intensamente poetiche (verso 108, nel quale la poesia
non è tanto nel significato sensibile, immediato dei
termini, quanto nelle solenni suggestioni bibliche di
cui sono carichi, e verso 111, nel quale il riflessivo
si traggon conferisce al soggetto - altrimenti
scarsamente caratterizzato, e nell’uso comune inerte - i
pesi, un’animazione che è propria della volontà
cosciente). |
112 |
E se' or
sotto l'emisperio giunto
ch'è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto |
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112 |
E sei ora giunto sotto
l’emisfero (australe) che è opposto a quello (boreale)
che ricopre la terra emersa, e sotto il cui meridiano
centrale (sotto ‘l cui colmo: a Gerusalemme, situata,
secondo le credenze del Medioevo, al centro della terra
emersa) fu ucciso |
115 |
fu l'uom che
nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l'altra faccia fa de la Giudecca. |
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115 |
l’uomo che nacque e visse
senza peccato (Cristo): tu poggi i piedi sulla piccola
superficie che corrisponde nell’emisfero australe a
quella costituita dalla Giudecca in quello boreale. |
118 |
Qui è da
man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim' era. |
|
118 |
Qui è mattina, quando
nell’emisfero boreale è sera: e Lucifero, che col suo
pelo ci servì come scala; è ancora confitto nella
posizione nella quale si trovava prima. |
121 |
Da questa
parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo, |
|
121 |
Dalla parte di questo
emisfero precipitò dal cielo; e la terra, che prima
della sua caduta emergeva in questo emisfero, per paura
di lui (che precipitava) si ritrasse sotto il mare, |
124 |
e venne a l'emisperio
nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch'appar di qua, e sù ricorse». |
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124 |
ed emerse nel nostro
emisfero; e forse la terra che è visibile (l’isola del
purgatorio) da questa parte (nell’emisfero australe),
per evitare il contatto con Lucifero (fermatosi nel
centro della terra) lasciò qui un luogo vuoto (è la
natural burella in cui i due poeti si trovano), e si
spinse in alto". |
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Nella rappresentazione dantesca della caduta di Lucifero
(versi 121-126 e Paradiso canto XXIX, versi 49-51)
confluiscono, come ha mostrato il Nardi, tre elementi:
1) il testo biblico di Isaia (XIV, 12~17),
dell’Apocalisse (XII, 7-16), di Luca (X, 18) e di Matteo
(XXV, 41);
2) la cosmografia arístotelico-averroistica come quella
che forma lo sfondo o il panorama nel quale il dramma
biblico si svolge;
3) alcune considerazioni teologiche per adattare il
dramma della caduta di Lucifero e del suo seguito entro
quel panorama aristotelico-averroistico-
La caduta di Lucifero è così presentata in Isaia: "Come
cadesti dal cielo Lucifero, stella del mattino?... Tu
che dicevi in cuor tuo: ‘In cielo io salirò...
m’assiderò sul monte del Testamento dalla parte
dell’aquilone [in questo particolare è forse lo spunto
da cui Dante è stato tratto ad immaginare il vento che,
prodotto dalle ali di Lucifero, ghiaccia Cocito]; salirò
al di sopra delle nubi, sarò pari all’Altissimo’. Ed
invece tu sarai trascinato all’inferno, nella profondità
del lago [questo lago, identificandosi nella fantasia di
Dante con il fiume del pianto di cui parla Virgilio nel
libro VI dell’Eneide, è nella Commedia lo stagno di
Cocito V".
Gli altri passi della scrittura integrano variamente
questo brano di Isaia.
"Dante è credente - osserva il Nardi - né la sua fede,
anche quando s’è abbattuto in serie difficoltà, ha mai
vacillato. Ma egli è altresì filosofo, nel senso che si
dava a questa parola ai suoi tempi, quando per filosofia
s’intendeva il sistema aristotelico della natura... Ora,
nella rappresentazione biblica del peccato di Satana e
degli angeli che si schierarono con lui e in quella
della loro caduta dal cielo in terra, vi sono
espressioni imprecisate, come quella di " cielo " e di "
terra ", che obbligavano la mente sottile di Dante,
abituata allo schema cosmologico dei " librì fisici "
d’Aristotele, a precisarle meglio." In particolare,
rileva il Nardi, la caduta dì Lucifero è avvenuta, per
Dante, nell’emisfero australe perché questo emisfero,
nel quale originariamente si trovava la terra emersa, è,
nella cosmografia aristotelica, più nobile di quello
boreale. Scrive il Nardi: "Aristotele, nel libro Il dei
De caelo (t. c. 16, cap. 2, 285b 22 sgg.), e Averroè,
nel suo commento a quest’opera, affermano ingenuamente
che la più nobile parte del mondo è quella da cui
comincia il movimento diurno, cìoè l’Oriente. E poiché
nell’uomo la destra è più nobile della sinistra, si deve
dire che l’Oriente è la destra del mondo. Ora, se voi
inscrivete in un cerchio che rappresenti il mondo la
figura d’un uomo che vi mostra la faccia... per far sì
che la sua destra coincida con l’Oriente, è necessario
che la sua testa coincida coi polo antartico, e i suoi
piedi col polo artico. Dunque... il polo antartico è il
capo del mondo, mentre l’artico ne rappresenta
l’estremità inferiore. Nel cielo antartico debbono
dunque trovarsi quelle costellazioni che mandavano
originariamente sulla terra i loro più benefici e
salutari influssi, e che la terra stessa attraevano a
sé, come magnete il ferro, facendola e mergere dalle
acque con la loro virtù. Così aveva argomentato
Aristotele, maestro di color che sanno, maestro e duca
dell’umana ragione, maestro nell’arte del loicare, così
aveva ragionato Averroìs, che ‘l gran comento feo. E
così ragionava anche Dante che per questo pone il
paradiso, terrestre nell’emisfero australe".
La spiegazione che Virgilio dà al suo discepolo
sull’origine della distribuzione attuale delle terre,
origine che deve essere identificata in una causa fisica
(la caduta di Lucifero) prodotta a sua volta da una
causa morale (la sua superbia), non ha nulla dì
pedantescamente didascalico, ma assurge ai toni di una
commossa meditazione, mai disgiunta dallo scrupolo del
rigore concettuale. Emergono nella trama di questo
ragionamento espressioni dì particolare vigore come la
gran secca... sotto ‘l cui colmo consunto (qui il
participio passato indica la lenta agonia dell’Uomo-Dio,
contrapponendosi alla fermezza impassibile della
precisazione cosmografica; questa, dal canto suo, fa
risaltare il carattere sovrannaturale del sacrificio di
Cristo, la sua divinità, la sua dignità di sovrano
dell’universo), per paura di lui fe’ del mar velo... e
venne... e su ricorse (qui i continenti si animano di
vita umana; l’orrore per la colpa di Lucifero desta in
essi la consapevolezza dei valori morali). |
127 |
Luogo è là
giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto |
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127 |
Vi è laggiù un luogo
situato all’estremità del sotterraneo che avevamo
percorso, lontano da Lucifero tanto quanto è lungo
questo sotterraneo, riconoscibile non per mezzo della
vista (a causa del buio), ma per il rumore |
130 |
d'un
ruscelletto che quivi discende
per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,
col corso ch'elli avvolge, e poco pende. |
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130 |
di un piccolo ruscello che
qui scende (si tratta verosimilmente del Leté, il corso
d’acqua che nel paradiso terrestre, posto sulla sommità
della montagna del purgatorio, toglie alle anime
purganti, nel momento in cui si accingono a salire in
cielo, la memoria dei loro peccati; in tal modo ogni
traccia di peccato torna nell’inferno) attraverso
l’apertura di una roccia, a esso scavata, col suo corso
a spirale, e in lieve pendenza. |
133 |
Lo duca e io
per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo, |
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133 |
Virgilio ed io ci avviammo
per quella via nascosta (nel grembo della terra; è la
via che conduce dall’estremità della natural burella
alla superficie dell’emisfero australe) per ritornare
nel mondo luminoso; e senza curarci di interrompere il
nostro cammino per riposare, |
136 |
salimmo sù,
el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. |
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136 |
salimmo, egli per primo e
io dietro di lui, finché attraverso un foro rotondo vidi
la luce degli astri: |
139 |
E quindi
uscimmo a riveder le stelle. |
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139 |
e attraverso questo foro
uscimmo a rivedere il firmamento. |
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Il cataclisma geologico seguito alla caduta dì Lucifero
è stato esposto - osserva il Petrocchi, -"secondo un
lucido procedimento scolastico, ma arricchito da un
sentimento drammatico del grande fenomeno che ha
sconvolto la terra". In virtù di questo fenomeno -
possiamo aggiungere - la stessa configurazione del globo
terracqueo esprime per Dante - al di là della sua
accidentalità empirica - una verità morale, una vicenda
accaduta alle orìgini del tempo, che tuttavia non cessa
di proporsi alla nostra meditazione come attuale, perché
eterna, connaturata al nostro spirito. "Ma - aggiunge il
Petrocchi - tra la disputatio virgiliana e la chiosa
narrativa [versi 127-139] di Dante c’è un’indubbia
differenza di tono, un cambiamento di registro: non più
i vocaboli del ragionamento scientifico, ma i termini di
una descrizione naturale sulla quale già cominciano a
gettare luce i primi albori propiziatori
dell’antipurgatorio. Via per sempre, entro le tenebre
dell’inferno, i vecchi sostantivi e aggettivi che lo
stile mezzano ha suggerito, offrendo per trentaquattro
canti la materia lessicale indispensabile. L’ultimo sarà
il cammino ascoso. Ora s’annunciano le nuove parole del
purgatorio, vibranti del " dolce " stile tragico: chiaro
mondo... i’ vidi delle cose belle.. uscimmo a riveder le
stelle. E in questo preannuncio luminoso vibra già la
tersa atmosfera lirica del sereno aspetto [Purgatorio
canto 1, verso 141 e del dolce color d’oriental zaffiro
[Purgatorio canto I, verso 131, s’apre il poetico
scenario del secondo regno.". |
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