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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO XIX° |
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1 |
Parea
dinanzi a me con l'ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l'anime conserte; |
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1 |
Davanti a me si mostrava con le ali aperte la bella
figura dell’aquila che era formata dalle anime riunite
insieme, liete nel godimento della loro beatitudine: |
4 |
parea
ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne' miei occhi rifrangesse lui. |
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4 |
ogni anima sembrava un
piccolo rubino nel quale risplendesse un raggio di sole
così vivo, da riflettere nei miei occhi il sole stesso. |
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Difficilmente il lettore potrà dimenticare l'esordio del
canto XIX, la sua profonda drammaticità (da una parte il
Poeta, per il quale il concetto e il sentimento della
giustizia sono gli elementi propulsori del suo spirito e
della sua opera, dall'altra l'immagine vivente di quella
giustizia che egli invano cercava sulla terra) e il suo
vigore plastico (le ali aperte dell'aquila, che
suggeriscono un volume e uno spazio immensi) subito
tradotto in termini affettivi (la bella image, davanti
alla quale il Poeta si perde in contemplazione come di
fronte alle corone dei sapienti o alla croce luminosa
dei martiri) . Ora che lo sguardo non è più distratto
dal movimento delle anime che si dispongono a formare
l'aquila e l'animo non è più preoccupato dal cimento
poetico (canto XVIII, versi 82-87), ora che l'impeto
polemico, precipitato nei versi finali del canto
precedente in un tono plebeo, si è momentaneamente
placato, il rito dell'aquila acquista piena vita
poetica. Si libera da ogni schematismo, da ogni astratta
rispondenza al simbolo, da ogni precisione troppo
sottile nei particolari, elementi che, nel canto
precedente, incidevano negativamente, dando
l'impressione di una costruzione forzata. L'aquila
splende serena, distendendo le sue ali a protezione e
dominio su tutto il cielo di Giove, brillando del colore
fulgente dei rubini (e non si dimentichi il gusto,
schiettamente romanico, della contrapposizione di colori
forti e diversi: la croce bianchissima nella luce
rosseggiante del cielo di Marte, l'aquila fulva
nell'argenteo temperato del cielo di Giove) e della
carità concorde dei beati, che incominciano a parlare
come una persona sola. Infatti la giustizia "in
qualunque luogo o tempo, chiunque sia la persona che la
eserciti sulla terra, è una sola, come una è la volontà
di Dio, in cui essa consiste e a cui essa si conforma; e
da questa unità discende naturalmente la concordia
assoluta, la perfetta unità, anzi identità, nello
spirito e nella forma, di tutti coloro che sono chiamati
a giudicar la terra: sicché una sola è la voce della
giustizia, quanti che siano coloro che la pronunziano".
(Chimenz) |
7 |
E quel che
mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso; |
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7 |
E quello che ora devo
raccontare, non fu mai detto, né scritto, né concepito
da alcuna fantasia, |
10 |
ch'io vidi e
anche udi' parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
quand' era nel concetto e 'noi' e 'nostro'. |
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10 |
perché io vidi e anche
udii il becco dell’aquila parlare, e dire con la sua
voce “io” e “mio”, mentre logicamente avrebbe dovuto
dire “noi” e “nostro”. |
13 |
E cominciò:
«Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio; |
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13 |
E l’aquila cominciò: “Per aver esercitato (sulla terra)
giustizia e pietà io sono qui innalzata alla gloria
celeste che supera (non si lascia vincere) ogni umano
desiderio; |
16 |
e in terra
lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia». |
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16 |
e sulla terra lasciai una
tale memoria di me, che perfino le genti malvagie del
mondo sono costrette a lodarla, anche se non imitano le
opere da me compiute (la storia)”. |
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Parlano, ad una sola voce, i grandi uomini dell'Impero,
per affermare di essersi ispirati, nella loro attività
terrena, alla giustizia e alla carità, le due vie
attraverso le quali opera Dio (Paradiso VII, 103-105) e
quindi opera l'1mpero, da Dio stabilito nel mondo ( cfr.
Monarchia 1, Xl, 13-14; Epistola V, 7). La giustizia
vera, dunque, è inseparabile dall'amore: si ripete,
nell'affermazione alta e squillante dell'aquila (per
esser giusto e pio ), il senso di esultante scoperta e
di fervido approdo che il Poeta ha sperimentato
all'apparire dell'aquila (o dolce stella, quali e quante
gemme...). Lì Dante aveva trovato, in uno splendore di
rivelazione, la certezza che la giustizia divina è
l'unica vera fonte di ogni giustizia umana, qui prende
coscienza che questa giustizia è anche amore: " Il
pellegrino... ritrova ora un senso assai più alto della
giustizia di quello per cui aveva tanto combattuto nel
mondo. E' per lui un sollevarsi dalla parzialità e dagli
errori del mondo a una visione assai più alta e
luminosa" (Montano).
A completamento e approfondimento di quanto il Poeta è
venuto affermando, l'aquila spiegherà che la giustizia
vera è quella per la quale l'uomo si sottomette a Dio.
conformandosi alla volontà divina, anche là dove questa
volontà appare simile al fondo inconoscibile di un
grande mare (versi 58-63). Anche se il comandamento
della giustizia è rivolto ai reggitori della terra, il
concetto di giustizia del cielo di Giove va ben oltre il
campo dei semplici valori politici o della virtù civica
di cui avevano parlato Aristotile e tutto il mondo
classico, Non si tratta più di stabilire la condotta del
giusto mezzo secondo natura e secondo ragione, ma di
instaurare un rapporto personale fra l'uomo e Dio, in
base al quale la creatura accetta come giusto solo ciò
che viene da Lui, perché il resto è tenebra, od ombra
della carne, o suo veleno (versi 65-66). |
19 |
Così un sol
calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image. |
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19 |
Come da molti
carboni accesi proviene un unico calore, così ora da
parte di molti spiriti ardenti di carità usciva un’unica
voce dalla figura dell’aquila. |
22 |
Ond' io
appresso: «O perpetüi fiori
de l'etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori, |
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22 |
Perciò io subito dopo dissi: “O fiori immortali della
gioia eterna, che mi fate sembrare una sola tutte le
vostre voci, allo stesso modo in cui da molti fiori
emana un unico profumo, |
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L'invocazione alle anime giuste si apre con un'immagine
nella quale il particolare concreto (fiori) si fonde,
con naturalezza, all'espressione del sentimento
(letizia), mentre tutto viene sollevato e avvolto
nell'ombra di un tempo infinito (perpetui... etterna):
ogni immagine, ogni similitudine del Paradiso è
sostanziata di contenuto teologico, perché da ogni
aspetto della realtà terrena s'irradia tutta
un'allusione alla realtà interiore e "la poesia e in
questo vibrare di allusioni, in questa segreta e pur
evidente teologia" (Getto). E' il rifiuto della
posizione del De Sanctis (solo il "profondo sentimento
della natura terrestre" salva la terza cantica dalla
monotonia) e del Croce (sono degne di essere ricordate,
del Paradiso, solo "alcune particolari visioni di
bellezza e di lietezza, i paesaggi fantastici o i lembi
di paesaggi fantastici"; la poesia più schietta non è
nella descrizione degli spettacoli paradisiaci, bensì
nelle "comparazioni con cui vuole illustrarli, e nelle
quali divaga e si compiace, formandone, più ancora che
nelle altre cantiche, piccole liriche perfettissime"). |
25 |
solvetemi,
spirando, il gran digiuno
che lungamente m'ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno. |
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25 |
scioglietemi, parlando, il grave dubbio che da lungo
tempo mi tormenta, non trovando per esso sulla terra
alcuna soluzione soddisfacente. |
28 |
Ben so io
che, se 'n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che 'l vostro non l'apprende con velame. |
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28 |
Io so bene che se la
giustizia divina in cielo si specchia direttamente in un
altro ordine di intelligenze, tuttavia anche (nella
vostra sfera) si manifesta senza essere offuscata da
alcun velo. |
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Dante ripete un concetto già esposto nel canto IX (versi
61-63): Dio riflette la sua giustizia sulla gerarchia
angelica dei Troni, che, a sua volta, la trasmette a
tutti i beati. |
31 |
Sapete come
attento io m'apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m'è digiun cotanto vecchio». |
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31 |
Voi sapete come mi preparo
ad ascoltarvi con attenzione; voi sapete qual è il
dubbio che costituisce per me un tormento così antico”. |
34 |
Quasi
falcone ch'esce del cappello,
move la testa e con l'ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello, |
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34 |
Come il falcone che viene
liberato dal cappuccio, alza il capo e muove festoso le
ali, dimostrando il desiderio (di alzarsi in volo) e
aggiustandosi le penne col becco, |
37 |
vid' io
farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude. |
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37 |
così vidi atteggiarsi
l’aquila , che era formata di anime che lodavano la
grazia divina, con canti che conosce solo chi è beato
lassù. |
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Il Poeta rappresenta il falcone nel momento in cui,
prima di essere lanciato nella caccia, viene liberato
dal cappuccio di cuoio con il quale gli si coprivano gli
occhi perché rimanesse tranquillo (un uso, questo,
introdotto da Federico II, che lo descrive nel suo De
arte venandi cum avibus). In questa similitudine il
Mattalia osserva "il mover del capo a osservare e
insieme a liberarsi dell'impressione di carcere o
compressione lasciatagli dal cappuccio; il " plaudersi "
con le ali, quasi a prova e in un moto di compiaciuto
orgoglio; il mostrar voglia, desiderio, il fremito delI'istinto
che lo spinge al volo e alla preda; e il farsi bello, il
profilarsi nella sua elegante sagoma di creatura nata al
volo e vibrante di predare forza". Ma al di là di questi
preziosi particolari occorre cogliere il rapporto che
lega la similitudine alla cosa o persona significata. La
concretezza e il rude realismo dell'immagine del
falcone, avvicinata momentaneamente a quella delle anime
beate per la stessa impetuosa manifestazione di gioia,
si dissolvono nella seconda terzina, dove l'ispirazione
è riportata sul piano paradisiaco dalla leggerezza di
quel segno (non appare più la maestosità delle ali
aperte), dall'effusiòne della divina grazia, dalla
dolcezza dei canti. Il Guzzo ha giustamente notato che
le similitudini del Paradiso lasciano l'impressione di
essere come volatilizzate, per cui i fenomeni terreni
evocati dal Poeta rappresentano il punto di partenza di
un processo di spiritualizzazione e di purificazione che
ascende dall'immagine terrena alla immagine paradisiaca.
Per il critico è errato parlare, come ha fatto il De
Sanctis, di "terra che presta immagini a rendere
intelligibile il cielo; perché la terra stessa si è, man
mano, sotto i ritocchi, volatilizzata in natura celeste,
ed ora è cielo essa stessa". La tesi del Guzzo è esatta
per quanto riguarda questo risultato di "impressione, ma
non sono accettabili le ragioni su cui si fonda la sua
critica, alle quali L. Russo ha obiettato che la ideale
trasfigurazione che egli ritiene propria delle
similitudini del Paradiso è invece sempre propria, e
necessariamente, della poesia in quanto tale. Nelle
similitudini del Paradiso (la conclusione è del Getto)
non avviene solo una spiritualizzazione artistica, ma un
vero e proprio processo di trasformazione, per cui
"l'immagine si dissolve quasi nel contenuto teologico". |
40 |
Poi
cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto, |
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40 |
Poi comincio: “Dio, colui
che creando girò il compasso a tracciare gli estremi
confini del mondo, e in questo dispose ordinatamente
tante cose occulte e visibili, |
43 |
non poté suo
valor sì fare impresso
in tutto l'universo, che 'l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso. |
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43 |
non poté imprimere la sua
infinita perfezione in tutto l’universo in modo tale,
che l’idea della sua mente non restasse infinitamente
superiore rispetto alle cose create. |
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Dio (l'immagine del Creatore che disegna i confini del
mondo è di origine biblica; cfr. Proverbi VIII, 27-29 e
Giobbe XXXVIII, 5-6) ha creato e impresso nel mondo un
ordine geometrico secondo una legge di assoluta
perfezione, ma il creato non possiede in atto tutta la
perfezione, perché risulterebbe infinito (e due infiniti
si escludono a vicenda) . L'idea divina, dalla quale
prende forma l'universo (cfr. Paradiso XIII, 52-57), non
ha toccato il punto estremo della sua potenza: Dio,
cioè, essendo infinito, non può realizzare totalmente se
stesso nell'universo finito. |
46 |
E ciò fa
certo che 'l primo superbo,
che fu la somma d'ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo; |
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46 |
E ciò è confermato dal fatto che
Lucifero, il quale fu la più alta creatura, per non aver
atteso la luce della Grazia, precipitò imperfetto dal
cielo; |
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La prova della limitatezza del creato di fronte
all'immensità e alla perfezione di Dio è offerta dalla
ribellione di Lucifero e dei suoi compagni. Dio,
infatti, dopo aver creato gli angeli, fissò per loro un
periodo di prova, superato il quale Egli avrebbe
concesso loro una pienezza di conoscenza che li avrebbe
resi consapevoli della loro imperfezione e quindi della
necessità della loro dipendenza da Dio. Lucifero, non
avendo voluto aspettare il lume della grazia divina,
perse per sempre quella perfezione di conoscenza alla
quale invece pervennero gli angeli rimasti fedeli (De
Vulgari Eloquentia I, II, 3-5). |
49 |
e quinci
appar ch'ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura. |
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49 |
e di qui appare chiaro che
ogni creatura inferiore (a Lucifero) è un vaso troppo
piccolo per contenere Dio, il Bene infinito, il quale
non può essere misurato se non con se stesso. |
52 |
Dunque
vostra veduta, che convene
esser alcun de' raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene, |
|
52 |
Dunque la nostra
intelligenza, che deve essere un raggio riflesso della
mente divina di cui sono piene tutte le cose, |
55 |
non pò da
sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là da quel che l'è parvente. |
|
55 |
non può, sua natura,
essere tanto potente da non dovere riconoscere che la
mente di Dio, suo principio, va molto al di là di quello
che essa può vedere. |
58 |
Però ne la
giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com' occhio per lo mare, entro s'interna; |
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58 |
Perciò l’intelletto che
voi mortali ricevete (dal Creatore), si può addentrare
nella giustizia divina, come l’occhio può vedere nelle
profondità del mare; |
61 |
che, ben che
da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l'esser profondo. |
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61 |
il quale occhio, benché
dalla riva riesca a scorgere il fondo, non lo vede più
quando si trova in alto mare; e tuttavia il fondo c’è,
ma lo nasconde la sua profondità. |
64 |
Lume non è,
se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno. |
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64 |
Non c’è (per l’intelletto
umano) luce di verità, se non viene dalla luce
eternamente serena (della mente divina); quella che non
viene di là è ignoranza , o nozione offuscata dai sensi
(della carne), o velenoso errore provocato da essi. |
67 |
Assai t'è mo
aperta la latebra
che t'ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra; |
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67 |
Adesso ti è possibile
guardare nella segreta profondità che ti celava la
giustizia del Dio vivente, per cui ti ponevi una domanda
così frequentemente ripetuta; |
70 |
ché tu
dicevi: "Un uom nasce a la riva
de l'Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva; |
|
70 |
poiché tu dicevi: “Un uomo
nasce sulle rive del fiume Indo, e qui non c’è né chi
parli né chi insegni né chi scriva di Cristo; |
73 |
e tutti suoi
voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni. |
|
73 |
e tutti i suoi sentimenti
e i suoi atti sono buoni, per quanto può giudicare la
ragione umana, senza peccato nelle opere o nelle parole. |
76 |
Muore non
battezzato e sanza fede:
ov' è questa giustizia che 'l condanna?
ov' è la colpa sua, se ei non crede?". |
|
76 |
Costui muore senza
battesimo e senza la fede: che giustizia è questa che lo
condanna? dove sta la sua colpa, se egli non crede?” |
79 |
Or tu chi
se', che vuo' sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna? |
|
79 |
Ora chi sei tu che vuoi
salire sul seggio del giudice, per dare un giudizio su
cose lontane da te mille miglia con la tua vista che non
vede al di là di un palmo? |
82 |
Certo a
colui che meco s'assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia. |
|
82 |
Certamente avrebbe motivo
di dubitare colui che fa sottili ragionamenti riguardo
al mistero della giustizia (meco: l’aquila è simbolo
della giustizia), se a guidarvi non ci fosse la Sacra
Scrittura. |
85 |
Oh terreni
animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch'è da sé buona,
da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse. |
|
85 |
Oh uomini che vivete come
bruti! oh ottuse menti umane! La volontà divina, che è
buona per sua natura, non si allontana mai dal principio
con il quale si identifica, il sommo Bene. |
88 |
Cotanto è
giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona». |
|
88 |
E’ giusto tutto quello che
si conforma a lei: nessun bene creato può attrarre a se
la volontà divina, anzi proprio essa, irradiandosi,
genera il bene creato”. |
|
Alla questione sollevata dalla vigorosa razionalità che
è la caratteristica non solo degli interessi teoretici
dell'Alighieri, ma anche del suo profondo sentimento
religioso (come si può accordare all'idea della
giustizia divina la dannazione eterna di coloro che
senza colpa non conobbero Cristo, ma vissero secondo le
leggi della morale naturale e quella dei bambini morti
senza battesimo?), l'aquila risponde con gli stessi
argomenti esposti da San Paolo nelle sue lettere
(Epistola ai Romani IX, 14-32; Epistola ai Filippesi II,
13). Con la sua veduta corta d'una spanna non è lecito
all'uomo misurare la giustizia divina: gli basti sapere
che Dio è il Bene assoluto e che, quindi, tutto ciò che
opera è buono. Secondo il Mattalia l'accettazione
fideistica dell'imperscrutabilità delle divine
deliberazioni, "non esclude né vale ad eliminare una
oscura e quasi angosciosa resistenza della ragione e del
sentimento morale", quella stessa che era presente
"nell'angoscia di Dante e di Virgilio di fronte alla
sorte delle grandi personalità del limbo (cfr. Inferno
IV, 31-45), e nella marcata messa a punto fatta da
Virgilio in Purgatorio VII, 25-36" Se esatto è il
rilievo relativo allo stato d'animo iniziale del Poeta,
il critico vede, nella conclusione della lezione
teologica dell'aquila, un sentimento di angoscia che in
realtà non esiste. Il contrasto, fierissimo, nell'animo
di Dante tra dogma e sentimento, tra credente e uomo, di
fronte alla condanna del mondo che non aveva conosciuto
la fede, quel mondo di alta civiltà e di profonda
cultura, al quale il Poeta sentiva di dovere molto,
appare qui superato in virtù di una serena accettazione
(che non esclude, tuttavia, la tristezza per quella
condanna) della prima volontà, ch'è da se bona, della
quale Piccarda aveva detto: è nostra pace. La
similitudine del cicognino che chiude la prima parte
della spiegazione, scolasticamente svolta, recupera una
zona di dolcezza e di pace paradisiache con "uno di
quegli umili motivi da paradiso francescano"
(Momigliano). La serenità con la quale il Poeta conclude
il quesito della predestinazione è ribadita dalla
terzina seguente, nella quale, in linea con la posizione
cristiana, si afferma che se la fede in Cristo è
condizione essenziale per la salvezza, ma non salva là
dove mancano le opere buone, la mancanza di fede in
Cristo venturo o venuto non costituisce motivo
insindacabile di dannazione dove non mancano le opere
buone e le alte virtù morali e intellettuali. E' quanto
il Poeta dimostrerà nel canto seguente. |
91 |
Quale
sovresso il nido si rigira
poi c'ha pasciuti la cicogna i figli,
e come quel ch'è pasto la rimira; |
|
91 |
Come la cicogna dopo aver
nutrito i figli gira volando sopra il nido, e come il
cicognino che si è pasciuto volge gli occhi verso di
lei, |
94 |
cotal si
fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l'ali
movea sospinte da tanti consigli. |
|
94 |
così fece la benedetta
figura dell’aquila, che agitava le ali mosse dalle
molteplici volontà concordi (degli spiriti da cui era
formata), io (come il cicognino) alzai gli occhi a
guardarla. |
97 |
Roteando
cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le 'ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali». |
|
97 |
Girando
intorno cantava, e diceva: “Come riescono
incomprensibili le parole del mio canto a te, che non
sei capace d’intenderle, così è incomprensibile il
giudizio divino a voi mortali”. |
100 |
Poi si
quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi, |
|
100 |
Dopo che
quelle luci, che erano fiamme di carità accese dallo
Spirito Santo, si fermarono sempre disposte nella figura
dell’aquila che rese i Romani degni di riverenza davanti
al mondo, |
103 |
esso
ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette 'n Cristo,
né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. |
|
103 |
l’aquila riprese: “In
paradiso non salì mai nessuno che non avesse creduto in
Cristo, sia prima sia dopo che egli fosse inchiodato
sulla croce. |
106 |
Ma vedi:
molti gridan "Cristo, Cristo!",
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo; |
|
106 |
Ma considera questo: molti
che gridano “Cristo, Cristo!”, nel giorno del giudizio
finale saranno assai meno vicino a Lui del pagano che
non lo ha conosciuto; |
109 |
e tai
Cristian dannerà l'Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe. |
|
109 |
e (anche) un infedele
etiope potrà condannare siffatti cristiani, quando (nel
giorno del giudizio) si divideranno le due schiere
(collegi, l’una destinata all’eterna ricchezza (del
paradiso), e l’altra destinata all’eterna miseria
(dell’inferno). |
112 |
Che poran
dir li Perse a' vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? |
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112 |
Che cosa non potranno dire
gli infedeli persiani ai vostri principi, quando
vedranno aperto il libro nel quale sono registrate tutte
le loro azioni spregevoli? |
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Esaurita la lezione teologica, l'aquila ritorna
all'argomento morale-politico con il quale già era
terminato il canto precedente e lo chiude nelle forme
aspre e apocalittiche della visione del giudizio finale.
Un terribile dies irae si prepara per coloro che hanno
gridato senza convinzione "Cristo, Cristo!" (cfr. per
questa espressione il passo evangelico di Matteo VII,
21) e per i regi le cui azioni sono degne di disprezzo.
L'appassionata e pur sobria eloquenza dei versi 106-114
risolve in modo assolutamente concreto e determinato il
gravissimo problema teologico che domina il canto,
mentre nelle ultime nove terzine Dante racchiude il
quadro dell'Europa traviata nello schema ferreo di un
acrostico. Infatti le lettere iniziali dei tre gruppi di
terzine L, V, E, formano la parola LVE (per V = U cfr.
Purgatorio XII, nota alla terzina 61)': i cattivi
reggitori d'Europa costituiscono la peste della
cristianità. |
115 |
Lì si vedrà,
tra l'opere d'Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che 'l regno di Praga fia diserto. |
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115 |
In quel libro si vedrà scritta, tra le
imprese dell’imperatore Alberto I, quella che presto
indurrà la penna divina a registrarla, e a causa della
quale sarà devastato il regno di Boemia con Praga, la
sua capitale. |
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L'imperatore Alberto d'Asburgo (cfr. Purgatorio VI, 97
sgg.) invase e devasto il regno di Boemia,
conquistandone la capitale, Praga, nel 1304 e
togliendola a Venceslao IV, suo cognato. |
118 |
Lì si vedrà
il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna. |
|
118 |
In quel libro si vedrà il doloroso
danno che, falsificando la moneta arrecherà alla Francia
Filippo il Bello che morirà per il colpo di un
cinghiale. |
|
Il re di Francia, Filippo il Bello, per sostenere le
spese della guerra contro la Fiandra coniò una nuova
moneta, alla quale conservò il valore nominale
dell'antica, pur abbassandone il titolo aureo (cfr.
Villani - Cronaca VIII, 58). Il re, al quale Dante non
risparmia le accuse più infamanti nella Commedia (cfr.
Purgatorio XX, 91-93; XXXII, 152-160; XXXIII, 45), mori
nel 1314 per un incidente di caccia, allorché fu
trascinato in una rovinosa caduta dal cavallo contro il
quale si era lanciato un cinghiale. |
121 |
Lì si vedrà
la superbia ch'asseta,
che fa lo Scotto e l'Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta. |
|
121 |
In quel libro si vedrà la superbia
sitibonda di dominio, che acceca il re di Scozia e
quello d’lnghilterra, in modo che nessuno dei due può
sopportare di rimanere entro i propri confini. |
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Il Poeta allude in questa terzina alle lotte, per
avidità di dominio, fra Edoardo II, re d'Inghilterra, e
Roberto Bruce, re di Scozia. |
124 |
Vedrassi la
lussuria e 'l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle. |
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124 |
Si vedranno la lussuria e la vita
effeminata del re di Spagna e del re di Boemia, che mai
seppe né mai volle sapere che cos’è la virtù. |
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Quel di Spagna è Ferdinando IV, re di Castiglia
(1295-1312) e quel di Boomme Venceslao IV, re di Boemia
(1270-1305). |
127 |
Vedrassi al
Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando 'l contrario segnerà un emme. |
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127 |
Si vedranno segnate le opere dello
Zoppo di Gerusalemme, le opere buone con una I, mentre
quelle malvage con una M. |
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Nel libro della giustizia divina Carlo II d'Angiò, lo
Zoppo, re di Napoli (cfr. Purgatorio XX, 79-81),
insignito del titolo di re di Gerusalemme, vedrà le
proprie opere buone indicate con I, cioè " uno", e
quelle malvagie con M, cioè "mille".
"Le due lettere sono la prima e l'ultima della parola
Jerusalem, che quasi certamente deve aver suggerito a
Dante la bizzarra trovata del rapporto numerico tra i
meriti e le colpe del Ciotto, anche in dispregio di quel
vano titolo regale." (Chimenz) |
130 |
Vedrassi
l'avarizia e la viltate
di quei che guarda l'isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate; |
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130 |
Si vedranno l’avarizia e la viltà di
colui che regna sulla Sicilia, l’isola del fuoco etneo,
dove Anchise terminò la sua lunga vita; |
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Quei che guarda l'isola del foco, la Sicilia, dove mori
Anchise, padre di Enea (Virgilio, Eneide III, 707 sgg.),
è Federico II d'Aragona (1272-1337), che Dante ha già
ricordato nel Purgatorio (canto VII, verso 119). |
133 |
e a dare ad
intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco. |
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133 |
e per far capire che uomo
dappoco egli sia, la scrittura che lo riguarda sarà in
parole abbreviate, che noteranno in poco spazio molte
opere malvagie. |
136 |
E parranno a
ciascun l'opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze. |
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136 |
E saranno visibili a
ognuno le opere vergognose dello zio e del fratello di
Federico, che hanno disonorato la così nobile stirpe
degli Aragonesi e le due corone d’Aragona e di Sicilia. |
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Ignobili sono anche le azioni dello zio di Federico,
Giacomo, re di Maiorca, e del fratello, Giacomo II, re
di Sicilia e d'Aragona (cfr. Purgatorio VII, 119, 120) .
Barba, " zio ", è termine dialettale, in uso
particolarmente nell'Italia settentrionale. |
139 |
E quel di
Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia. |
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139 |
E lì si saprà chi furono il re di
Portogallo e quello di Norvegia, e il re di Rascia, che
per proprio danno conobbe la moneta veneziana. |
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Di Dionisio l'Agricola, re di Portogallo (1276-1325) e
di Acone VII Gambalunga, re di Norvegia (1299-1319),
Dante doveva possedere vaghe notizie.
Quel di Rascia:
Stefano Arosio II Milutino (1276-1321), re di Rascia,
regione comprendente la Croazia e parte della Serbia e
della Dalmazia. Nei grossi, moneta ufficiale del suo
regno, riprodusse, alterandone la lega, il ducato, o
matapan, d'argento veneziano. |
142 |
Oh beata
Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
se s'armasse del monte che la fascia! |
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142 |
Oh felice l’Ungheria se non si lascia
più malmenare dai suoi re (come nel passato)! e felice
il regno di Navarra se si fa scudo dei Pirenei che lo
circondano! |
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Mentre Dante scriveva questi versi era re d'Ungheria
Carlo Roberto d'Angiò (1301-1342), "signore di grande
valore e prodezza" (Villani, Cronaca XII, 6), figlio di
Carlo Martello (Paradiso V111, 46 sgg.).
I Pirenei non furono sufficienti al regno di Navarra per
difendersi dalla egemonia francese. Infatti dopo la
morte di Enrico I il regno fu governato dalla figlia
Giovanna, che nel 1284 andò sposa a Filippo il Bello, re
di Francia. Alla morte di lei ( 1304) salì sul trono di
Navarra il figlio, Luigi X, che alla morte del padre,
nel 1314, divenne anche re di Francia. |
145 |
E creder de'
ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra, |
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145 |
E ognuno sappia che ora,
come saggio (di quello che accadrà all’Ungheria e alla
Navarra), Nicosia e Famagosta si lamentano e gridano per
la tirannia del loro re bestiale, |
148 |
che dal
fianco de l'altre non si scosta». |
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148 |
il quale non si scosta
dall’esempio degli altri re, simili a bestie come lui. |
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Presto anche l'Ungheria e la Navarra soffriranno sotto
il dominio francese le vessazioni che già sono costrette
a subire Nicosia e Famagosta, le due città più
importanti dell'isola di Cipro, sotto il governo di
Arrigo II di Lusignano (1285-1324), principe di origine
francese.
Anche se l'indagine storica potrebbe contestare la
validità di alcune affermazioni del Poeta a proposito
dei malvagi reggitori cristiani d'Europa, il quadro
dantesco, "in virtù della sintesi, tocca l'essenza del
problema politico e il punto programmatico di una
visione della storia" (Fallani). L'lmpero vacante (tale
esso era per Dante dal 1250, anno della morte di
Federico II) e la politica della Chiesa, desiderosa di
affermare la propria autorità anche in campo temporale,
hanno provocato l'anarchia in tutta l'Europa favorendo,
a danno della feudalità, l'ingrandirsi dei Comuni, la
lotta fra città e città, nazione e nazione, e le mire
espansionistiche della casa di Francia. Il Mattalia così
conclude le sue precise osservazioni su questo canto:
"La scritta formata dalle anime, si ricordi (cfr.
Paradiso XVIII, 91-931, era indirizzata ai reggitori dei
popoli, protagonisti e responsabili massimi della
giustizia in terra. Insegna universale, nesso simbolico
della diade Dio- Impero , superiore coscienza etica e
speculativa, l'aquila rappresenta il problema della
giustizia nella sua istanza più alta ed ampia, la sua
giurisdizione estendendosi a tutta l'umanità: e
perciostesso è la più alta corte di giustizia alla quale
si possano chiamare al "redde rationem" i principi
contemporanei, imperatori compresi. |
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