|
DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO XX° |
 |
 |
 |
 |
1 |
Quando colui
che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma, |
|
1 |
Quando il sole che illumina tutto il mondo tramonta dal
nostro emisfero tanto, che il giorno da ogni parte viene
meno, |
4 |
lo ciel, che
sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende; |
|
4 |
il cielo, che prima era
illuminato soltanto dalla sua luce, ridiventa
improvvisamente visibile grazie ai molti astri, nei
quali si riflette l’unica luce del sole: |
7 |
e questo
atto del ciel mi venne a mente,
come 'l segno del mondo e de' suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente; |
|
7 |
e questo fenomeno celeste
mi venne in mente, non appena l’aquila, l’insegna
dell’impero romano che unificò il mondo, e dei suoi
imperatori, tacque col suo becco, |
10 |
però che
tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci. |
|
10 |
poiché tutti quegli
spiriti luminosi, risplendendo sempre di più, intonarono
canti, caduti e dileguati dalla mia memoria. |
|
La similitudine che apre il canto XX nasce, come la
maggior parte delle similitudini della Commedia, dalla
costante preoccupazione di riferire i singoli momenti
del mistico viaggio a un mondo di esperienze concrete e
positive. Per spiegare come l'unica voce dell'aquila,
che ha appena terminato con il duro sirventese contro i
malvagi reggitori della terra la lezione teologica del
canto XIX, si rifrange ora nei canti delle singole
anime, "viene in mente", al Poeta, I'improvviso
accendersi delle stelle nel cielo subito dopo il
tramonto del sole. Una immagine visiva per descrivere un
fatto acustico: invenzione non nuova in Dante,: che ha
già paragonato il tumulto di grida e di lamenti degli
ignavi al turbinare della rena (Inferno III. 28-30) o,
inversamente, ha chiamato il secondo cerchio, privo di
sole, luogo d'ogni luce muto (Interno V, 28). Il momento
poetico centrale della similitudine è nel particolare
astronomico del verso 6 (le stelle, secondo la credenza
medievale, derivano la loro luce dal sole): la breve
notazione erudita salda, infatti, il momento visivo a
quello acustico, il quale, quando viene introdotto,
ripropone un'immagine di luce:per molte luci, in che una
risplende... tutte quelle vive luci... cominciaron
canti. Giustamente V. Rossi commenta che "il fenomeno
luminoso svela la sua sostanziale identità col
rifrangersi la voce una del rostro nella moltitudine
finora univoca delle luci canore". Tuttavia, al di là
della vaghezza d'immagini, preme al Poeta che nella
coralità del regno dell'aquila si mantenga la pluralità
degli spiriti, avendo egli ben avvertito il pericolo di
un errore teologico, quello di sottrarre alle anime dei
giusti, serrate nella figura dell'aquila, ogni attributo
personale. A questo proposito risultano assai valide le
seguenti osservazioni del Montanari: " Il primo motivo
conduttore di questo canto è l'alternarsi dei discorsi
Dell'aquila formata dalle anime dei giusti e che parla
come un'unica persona, con il brillare e il cantare dei
singoli giusti quasi a commento più variamente personale
del discorso comune. Trova cioè, in questo canto,
perfetta espressione il sentimento della concorde unità,
ed insieme quello della piena personale libertà che
Dante ha già tentato di rappresentare nel concorde e
vario girare delle corone dei sapienti nel cielo del
Sole, e nel vario muoversi dei forti saldamente
inquadrati nella croce di Marte". |
13 |
O dolce amor
che di riso t'ammanti,
quanto parevi ardente in que' flailli,
ch'avieno spirto sol di pensier santi! |
|
13 |
O dolce carità che ti avvolgi nel manto luminoso del tuo
sorriso, quanto ti mostravi ardente in quegli spiriti
che come flauti spiravano i loro canti mossi solo da
santi pensieri! |
16 |
Poscia che i
cari e lucidi lapilli
ond' io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli, |
|
16 |
Dopo che le anime simili a
lucenti gemme preziose, di cui avevo visto adornato
Giove, il sesto pianeta, interruppero gli angelici
canti, |
19 |
udir mi
parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l'ubertà del suo cacume. |
|
19 |
mi parve di
udire il mormorio di un torrente che scende limpido giù
di sasso in sasso, mostrando la ricchezza d’acqua della
sua sorgente sulla vetta, |
22 |
E come suono
al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com' al pertugio
de la sampogna vento che penètra, |
|
22 |
E come il suono si modula nella parte più alta della
cetra ( dove il suonatore fa scorrere le dita), e come
il fiato che penetra nella zampogna acquista forma di
suono ai fori di essa, |
25 |
così,
rimosso d'aspettare indugio,
quel mormorar de l'aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio. |
|
25 |
Così, rimosso ogni indugio, il mormorio dell’aquila salì
su per il collo come se questo fosse vuoto. |
|
I versi 13-27 mantengono il tono contemplativo e nello
stesso tempo trionfale dell'esordio. Infatti il
tramonto, descritto nelle due terzine iniziali, è ben
diverso da quello, carico di ansietà e di timori, del
canto II dell'Inferno (versi 1-3) o da quello, pensoso e
raccolto, del canto VIII del Purgatorio (versi 1-6 ),
nei quali l'animo assisteva con un senso di doloroso
stupore alla scomparsa della luce. Ora l'accento è posto
non più sulla mancanza di luce, bensì sull'accendersi di
migliaia di stelle, di migliaia di luci: è una visione
nella quale, all'immensità dello spettacolo celeste, si
unisce il tripudio festante di quello scintillio. Non
semplice appendice, ma poeticissimo sviluppo della
larghezza di movimento, della pienezza ed esuberanza di
accordi di questo esordio, sono i versi 13-27. Il De
Bello, che ha svolto numerosi suggerimenti di V. Rossi e
del Momigliano, nota che questa parte del canto è
musicale non solo per le numerose immagini desunte dal
mondo della musica (I'echeggiare di flailli, gli
angelici squilli, il suono che si modula nel collo della
cetra o nei fori della zampogna; a queste immagini si
aggiunge, negli ultimi versi, quella del citarista che
accompagna il cantore), ma perché tale è "nella sua
abile strutturazione, nel tessuto della sintassi
poetica, nell'uso stesso della parola". Dopo le terne
iniziali di assonanze (discende - s'accende - risplende
- parvente - mente - tacente - canti - t'ammanti -
santi), la ricerca musicale culmina in un fine gioco di
assonanze (failli - lapilli - squilli - lume - fiume -
eccome) abilmente contrappuntato da suoni acuti (-illi-
) e gravi (-ume-).Questa sintassi poetica, avvertibile
in tutto il canto (il De Bello cita, a questo proposito,
numerosi esempi ), non resta un elemento esterno, una
prova di abilità tecnica nella ricerca di accorgimenti
fonici, ma diventa l'"espressione lirica di uno stato
d'animo abbandonato", la componente psicologica e
spirituale della lezione teologica. Il canto XX,
infatti, ribadisce e rafforza la serena conclusione del
discorso dell'aquila sul tema della predestinazione:
ogni dubbio, ogni angosciosa incertezza si placano
nell'invocazione conclusiva dei versi 130-132: o
predestinazioni, quanto remota è la radice tua da quelli
aspetti che la prima cagion non veggion tota! E l'animo
del Poeta, nell'accettazione del mistero e nella
contemplazione della giustizia divina, trova la sua
gioia più alta e inebriante, quella che appunto gli
detta la musicale orchestrazione nonché la ricchezza
tematica di questi versi. "Rapide, plastiche, luminose"
il Parodi definisce le similitudini del fiume e della
cetra, che dopo la polifonia dei canti delle anime
giuste introducono nuovamente alla monodia dell'aquila.
Per quanto riguarda la similitudine del fiume facciamo
nostre ancora le osservazioni del De Bello: "l'ubertà
del suo cacume, espressione di pregnante ricchezza che
suggerirebbe visioni di scroscianti e spumeggianti acque
alpine si perde e si spegne in quel dolce mormorare,
nella onomatopea del verso, in quello scendere chiaro
giù di pietra in pietra. Un torrente alpino ubertoso di
acque sì, forse croscianti, ma udito attraverso una
lontananza di spazio e di tempo, quasi un'evocazione
mnemonica di ascoltare rapito...". Proprio perché
l'immagine visiva si risolve in quella musicale del
mormorio, questi versi si differenziano da quelli
celebrativi dell'Inferno dedicati ai verdi ruscelletti
del Casentino ( canto XXX, versi 64-67), nei quali
l'immagine manteneva la sua concreta attualità, la sua
determinatezza di cosa vista e quasi assaporata. Ora
invece tutto perde capacità e peso. La stessa aquila è
pur sempre un immagine stilizzata, senza profondità,
cosicché il suono può sortire attraverso il suo collo
bugio. |
28 |
Fecesi voce
quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov' io le scrissi. |
|
28 |
Nel collo il mormorio
divenne voce, e di qui attraverso il becco uscì in forma
di parole, proprio come le desiderava il mio cuore,
dentro il quale le impressi. |
31 |
«La parte in
me che vede e pate il sole
ne l'aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole, |
|
31 |
L’aquila cominciò: “Ora
devi guardare attentamente il mio occhio, la parte: che
nelle aquile terrene vede e sopporta la luce del sole, |
34 |
perché d'i
fuochi ond' io figura fommi,
quelli onde l'occhio in testa mi scintilla,
e' di tutti lor gradi son li sommi. |
|
34 |
perché fra gli spiriti coi
quali formo la mia figura, quelli onde l’occhio
risplende nella mia testa, hanno il più alto grado di
beatitudine fra tutti quelli del sesto cielo. |
37 |
Colui che
luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l'arca traslatò di villa in villa: |
|
37 |
Colui che risplende nel
mezzo dell’occhio come pupilla, fu Davide, il cantore
ispirato dallo Spirito Santo, che trasportò l’arca santa
di luogo in luogo (fino a Gerusalemme); |
|
Davide, re d'Israele e autore dei Salmi (cantor
dello Spirito Santo: perché gli scritti
biblici sono ispirati da Dio). fece trasportare l'arca
santa da Baala alla casa di Abinadab, nella cittadina di
Get, e da Get a Gerusalemme (II Samuele VI, 1-23; cfr.
anche Purgatorio X, 55-69). |
40 |
ora conosce
il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch'è altrettanto. |
|
40 |
ora conosce quale fu il
merito acquistato con i suoi Salmi, in quanto
(l’accettazione dell’ispirazione divina) fu frutto della
sua libera volontà, per il premio avuto che corrisponde
al merito. |
43 |
Dei cinque
che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s'accosta,
la vedovella consolò del figlio: |
|
43 |
Dei cinque spiriti che mi
formano l’arco del ciglio, quello che è più vicino al
mio becco, fu Traiano, colui che consolò la vedovella
dell’uccisione del figlio: |
|
L'imperatore Traiano (97-117 d. C.), mentre si accingeva
ad intraprendere una spedizione militare contro i Daci,
esaurì le preghiere di una vedova che invocava giustizia
contro gli uccisori del figlio (cfr. Purgatorio X,
73-93). Secondo una leggenda molto diffusa nel Medioevo,
il papa San Gregorio Magno, commosso per l'atto di
giustizia compiuto da Traiano verso la vedovella, tanto
pregò per lui che gli ottenne da Dio la salvezza. Una
delle redazioni di questa leggenda narrava che l'anima
di Traiano, che si trovava all'inferno, ritornò per
breve tempo nel corpo per ricevere il battesimo (cfr.
versi 112-117). |
46 |
ora conosce
quanto caro costa
non seguir Cristo, per l'esperïenza
di questa dolce vita e de l'opposta. |
|
46 |
ora conosce quanto costi
caro non aver la fede in Cristo, per l’esperienza che fa
di questa vita beata e per quella fatta dell’opposta
vita nell’inferno. |
49 |
E quel che
segue in la circunferenza
di che ragiono, per l'arco superno,
morte indugiò per vera penitenza: |
|
49 |
E lo spirito che viene
dopo Traiano nel cerchio di cui sto parlando, nella
parte superiore del mio arco ciliare, è Ezechia, colui
che con la vera penitenza ritardò la morte: |
|
Il terzo sovrano presentato dall'aquila è Ezechia,
figlio di Acaz e re di Giuda, lodato per la sua
giustizia: ( II Re XVIII, 3-5). Essendo gravemente
ammalato ed essendogli stata annunziata come prossima la
morte dal profeta Elia, chiese ed ottenne da Dio che la
vita gli fosse prolungata di quindici anni (cfr. Il Re
XX, 1-11; Isaia XXXVIII, 1-22). Nella Sacra Scrittura
non appare che Ezechia abbia chiesto di differire la sua
morte per fare vera penitenza. Dante ha interpretato
l'episodio in questo senso perché, nella preghiera di
ringraziamento per la guarigione ottenuta, il re
manifesta anche il pentimento per i propri peccati
(Isaia XXXVIII, 17). |
52 |
ora conosce
che 'l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l'odïerno. |
|
52 |
ora conosce che il
giudizio eterno di Dio non cambia, anche se una
preghiera meritoria ottiene di rimandare a domani ciò
che sulla terra dovrebbe accadere oggi. |
55 |
L'altro che
segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco: |
|
55 |
L’altro spirito che segue
è Costantino. colui che, con buona intenzione che diede
(però) cattivi risultati, per cedere Roma al papa, fece
greco se stesso (trasferendo la capitale a Bisanzio) con
le leggi dell’Impero e con la sua insegna: |
|
Nel punto più alto del sopracciglio dell'aquila è
l'imperatore Costantino, che trasferì la capitale
dell'Impero da Roma a Bisanzio (si fece greco] per
cedere il dominio di Roma al pontefice. Dante riconosce
qui che, nella sua decisione, Costantino fu mosso da
un'intenzione onesta e religiosa ( buona ), della quale
non poté prevedere i gravissimi risultati: la
degenerazione morale della Chiesa, iniziata con il
possesso dei beni materiali, e la confusione fra potere
spirituale e potere-temporale. Cfr., a questo proposito,
Inferno XIX, 115-117; Purgatorio XXXII, 124-129;
Monarchia II, XII, 8; III, X, 4,17. Nel giudizio di Dio
non contano dunque i risultati pratici di quell'azione,
bensì l'intenzione, qui definita buona e altrove sana e
benigna (Purgatorio XXXII, 138). |
58 |
ora conosce
come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia 'l mondo indi distrutto. |
|
58 |
ora conosce che il male
causato dall’opera da lui compiuta con retta intenzione
non gli è imputato a colpa, sebbene da ciò sia derivata
la rovina del mondo. |
61 |
E quel che
vedi ne l'arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo: |
|
61 |
E lo spirito che vedi
nella curva discendente dell’arco ciliare, fu Guglielmo,
che è rimpianto dalla terra (di Puglia e di Sicilia) la
quale ora soffre per il malgoverno di Carlo II e
Federico II, suoi attuali sovrani: |
|
Guglielmo II d'Altavilla, il Buono, fu re di Sicilia e
di Puglia dal 1166 al 1189. Sovrano giusto e illuminato,
promosse e favorì la terza Crociata e fu concordemente
celebrato da poeti e cronisti del tempo. Il suo buon
governo è qui contrapposto a quello di Carlo Il d'Angiò,
re di Puglia, e a quello di Federico II d'Aragona, re di
Sicilia. Dante ha già presentato i dispregi di questi
due sovrani nel canto XIX del Paradiso. versi 127-135. |
64 |
ora conosce
come s'innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora. |
|
64 |
ora conosce come Dio ami i
re giusti, e dimostra anche con il fulgore del suo
aspetto questa sua consapevolezza. |
67 |
Chi
crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante? |
|
67 |
Chi potrebbe credere
laggiù in terra fra gli uomini soggetti ad errore, che
il troiano Rifeo fosse il quinto spirito beato nell’arco
del mio ciglio? |
|
Rifeo, sconosciuto ad Omero, viene ricordato nell'Eneide
(II, 426-428) fra i Troiani che morirono difendendo Ilio
allorché i Greci penetrarono nella città con lo
stratagemma del cavallo di legno: "cadde anche Rifeo, il
più retto che sia mai stato fra i Teucri e il più
osservante della giustizia", ma, aggiunge il poeta
latino, "agli dei sembrò altrimenti". Il giudizio pieno
di lode dato dal suo maestro sull'oscuro guerriero
troiano e l'accettazione del volere divino, espresso
nell'ultimo emistichio virgiliano, giustificano la
trasfigurazione, nel poeta cristiano, di Rifeo in
simbolo della imperscrutabilità della giustizia divina.
Per la seconda volta l'aquila presenta un elenco di
personaggi. Nel canto precedente la rassegna degli
indegni re della terra si era svolta in nove terzine,
nelle quali ogni gruppo ternario incominciava con la
stessa parola ( lì, vedrassi, e), formando un acrostico.
Anche questa rassegna è chiusa in un rigido schema: a
ogni personaggio sono consacrate due terzine, delle
quali la prima rivela chi egli sia e la seconda enumera
il principio di fede relativo alla condizione di ognuno
e chiarificatosi solo ora in paradiso. La prima terzina
è sorretta da formule simili (colui che, e quel che,
l'altro che), la seconda dalle parole ora conosce,
indicanti l'indefinibile distanza tra il corto e fallace
giudizio umano e il giudizio divino. Anche questo
schema, come quello del canto precedente, ha un suo
profondo significato, perché oltre ad accrescere
l'efficacia persuasiva e la solennità del discorso
dell'aquila, continua, con la sua simmetria sintattica e
con il "ritornello grave di musicale sapienza ora
conosce che si ripete tante volte, ad uguali intervalli"
(Momigliano), il motivo musicale impostato nell'esordio. |
70 |
Ora conosce
assai di quel che 'l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo». |
|
70 |
Ora, anche se il suo
sguardo non ne può distinguere il fondo, conosce
abbastanza di quel mistero della grazia divina che il
mondo non può conoscere”. |
73 |
Quale
allodetta che 'n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l'ultima dolcezza che la sazia, |
|
73 |
Come un’allodola che prima
spazia nell’aria cantando, e poi tace sopraffatta dalla
dolcezza finale del suo canto che la rende contenta, |
76 |
tal mi
sembiò l'imago de la 'mprenta
de l'etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell' è diventa. |
|
76 |
cosi la figura dell’aquila
mi sembrò tacere soddisfatta del piacere (provato
parlando), il quale è un’impronta del piacere divino,
secondo la cui volontà ogni cosa diventa quella che è. |
|
La similitudine dell'allodetta, una delle più celebrate
della Commedia, è certamente quella che meglio traduce
la sensazione ineffabile dell'anima ormai convinta che
il mistero della giustizia divina è un mistero d'amore.
Il Tommaseo per primo notò che questa terzina dantesca
ha antecedenti diretti nella poesia provenzale, e, in
particolare, in questi versi di Bernart de Ventadorn:
"quando vedo l'allodoletta ("lauzeta") che muove per
gioia le sue ali verso il sole, e poi si oblia e si
lascia cadere per la dolcezza che le scende nel
cuore...'. Tuttavia il significato della similitudine
dantesca è molto più profondo di quello della
convenzionale, seppur delicata immagine del poeta
provenzale. La gioia della "lauzeta' che si slancia
verso il sole non è quella piena e traboccante della
allodetta che 'n aere si spazia... cantando: il canto,
elemento non rilevato dal trovatore, sottolinea la
pienezza di questa effusione (verso 74). La dolcezza che
invade l'allodoletta di Bernart de Ventadorn è il
godimento fisico della luce del sole, mentre l'ultima
dolcezza che rende contenta e sazia l'allodoletta di
Dante è il gaudio spirituale che penetra tutto l'essere
di chi si sente immerso nella solitudine degli spazi
celesti. "E la gioia del benedetto regno è la gioia del
Poeta contemplante nel suo pensiero il divino congiunto
all'umano nella giustizia. L'impeto di vita poetica, che
contenuto si sente nei verso annunciatore delle parole
dell'aquila: quali aspettava il core, ov'io le scrissi,
si disviluppa progressivamente in quelle parole sino a
prorompere poi magnifico nel sogno dell'aquila-allodetta;
e quell'impeto e lo spirito del Poeta in fiamma d'amore
e di fede per la sua idealità religiosa e civile di un
giusto Impero destinato a ricondurre il divino nel
mondo". (V. Rossi) |
79 |
E avvegna
ch'io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch'el veste,
tempo aspettar tacendo non patio, |
|
79 |
E sebbene io davanti
all’aquila fossi trasparente rispetto al dubbio che mi
agitava come il vetro rispetto al colore che esso
ricopre, il mio dubbio non tollerò di attendere in
silenzio, |
82 |
ma de la
bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch'io di coruscar vidi gran feste. |
|
82 |
ma dalla bocca mi spinse
fuori con tutta la forza del suo peso la domanda: “Che
cosa sono queste cose (cioè: come può un pagano
salvarsi)?”; per cui (pronunciate quelle parole) vidi un
grande sfavillio di luci (da parte delle anime). |
|
Nel canto precedente, alla ragione che tentava di
sondare il mistero della giustizia divina l'aquila aveva
contrapposto la visione di un mare immenso del quale
l'umana veduta corta d'una spanna non potrà mai scorgere
il fondo, concludendo con un'insindacabile sentenza: a
questo regno non salì mai chi non credette 'n Cristo,
nel pria nel poi ch'el si chiavasse al legno. La
presenza, nel ciglio dell'aquila, di due pagani, Traiano
e Rifeo, propone una grave incertezza. La nuova lezione
dell'aquila si svolge nella linea dell'ortodossia
tomista, con la precisione di linguaggio e di metodo
propria della Scolastica. |
85 |
Poi
appresso, con l'occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso: |
|
85 |
Immediatamente dopo, per
non tenermi sospeso nello stupore, con l’occhio ancor
più splendente, il benedetto segno dell’aquila mi
rispose: |
88 |
«Io veggio
che tu credi queste cose
perch' io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose. |
|
88 |
“Io vedo che tu credi a
queste cose perché te le ho dette io, ma non comprendi
come (i due pagani siano salvi), cosicché, anche se tu
le credi, queste cose restano oscure (al tuo
intelletto). |
91 |
Fai come
quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome. |
|
91 |
Fai come colui che impara
sì il nome di una cosa, ma non può conoscerne l’essenza
se altri non gliela manifesta. |
94 |
Regnum
celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate: |
|
94 |
Il regno dei cieli
sopporta violenza solo da parte dell’amore ardente e
della speranza da esso vivificata, che vincono la divina
volontà; |
97 |
non a guisa
che l'omo a l'om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza. |
|
97 |
non la
vincono con la violenza come un uomo che sopraffà un
altro, ma perché essa vuole essere vinta, e, nel momento
stesso in cui è vinta, vince con la sua bontà. |
|
La ripresa di un'espressione evangelica (Matteo XI, 12;
Luca XVI, 16) serve a Dante per affermare che caldo
amore e viva speranza possono conquistare la divina
volontà, la quale altro non desidera che di essere vinta
dall'amore e dalla speranza delle creature, cosicché, in
ultima analisi, è pur sempre la volontà divina che
trionfa con la sua misericordia. |
100 |
La prima
vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta. |
|
100 |
La prima
anima fra quelle che formano il mio ciglio e la quinta
ti fanno stupire, perché vedi il paradiso, la regione
degli angeli, adorno della loro presenza. |
103 |
D'i corpi
suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d'i passuri e quel d'i passi piedi. |
|
103 |
Questi due spiriti non
uscirono pagani dai loro corpi, come ritieni, ma
cristiani, credendo fermamente Rifeo nella futura
redenzione e Traiano nella redenzione già operata da
Cristo crocifisso. |
106 |
Ché l'una de
lo 'nferno, u' non si riede
già mai a buon voler, tornò a l'ossa;
e ciò di viva spene fu mercede: |
|
106 |
Perché l’anima di Traiano
dall’inferno, da dove non si può ritornare mai alla
volontà di operare il bene, tornò a riprendere il corpo;
e ciò fu premio dell’ardente speranza (di San Gregorio
Magno); |
109 |
di viva
spene, che mise la possa
ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa. |
|
109 |
di quell’ardente speranza,
che nelle preghiere fatte a Dio per risuscitare l’anima
di Traiano infuse una forza tale che la volontà del
risorto potesse essere mossa (alla fede e al
pentimento). |
|
La salvezza di Traiano; parte da una premessa teologica:
colui che è in stato di Grazia può meritarla ad un
altro. Così avvenne per Traiano, salvato per
intercessione di San Gregorio Magno. Il caso particolare
dell'imperatore romano è ricordato anche da San Tommaso
(Summa Theologica III, LXXI, 5). |
112 |
L'anima
glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla; |
|
112 |
L’anima gloriosa di
Traiano di cui si sta parlando, tornata nel corpo, nel
quale restò poco tempo, credette in Cristo che poteva
salvarla: |
115 |
e credendo
s'accese in tanto foco
di vero amor, ch'a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco. |
|
115 |
e credendo si accese di
tale fuoco di amore di Dio, che, giunta alla morte per
la seconda volta, fu degna di salire alla gioia del
paradiso. |
118 |
L'altra, per
grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l'occhio infino a la prima onda, |
|
118 |
L’anima di Rifeo, in virtù
della grazia divina che deriva da una sorgente cosi
profonda, che mai nessuna creatura poté spingere
l’occhio fino al punto da cui sgorgano le sue acque, |
121 |
tutto suo
amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l'occhio a la nostra redenzion futura; |
|
121 |
vivendo sulla terra
indirizzò tutto il suo amore alla giustizia; per questo
Dio, aggiungendo grazia a grazia, gli rivelò la nostra
futura redenzione: |
124 |
ond' ei
credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse. |
|
124 |
per cui egli credette in
essa, e da allora in poi non tollerò più il nauseante
paganesimo: e ne rimproverava le genti sviate in quell’errore. |
127 |
Quelle tre
donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d'un millesmo. |
|
127 |
Più di mille anni prima
dell’istituzione del battesimo a lui valsero come
battesimo quelle tre donne (Fede, Speranza e Carità) che
tu vedesti (nel paradiso terrestre) alla destra del
carro della Chiesa (cfr. Purgatorio XXIX, 121-129). |
|
Rifeo pose ogni amore nella giustizia per un dono
particolare di quella Grazia che ha origine nel mistero
insondabile di Dio (versi 118-121). Da Dio egli, in
ricompensa, ricevette favori sempre più grandi, fino
alla rivelazione della futura redenzione. Base di questa
dottrina è ancora il pensiero di San Tommaso (Summa
Theologica II, II, II, 7), il quale spiega che molti
pagani ottennero la salvezza perché, per intervento
della Grazia, venne loro rivelata la futura venuta di
Cristo. Ripudiati gli errori del paganesimo, a Rifeo, in
luogo del battesimo, fu sufficiente l'osservanza delle
tre virtù teologali che Dio gli aveva infuso nell'animo. |
130 |
O
predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota! |
|
130 |
O predestinazione, quanto
è distante la tua profonda ragione dagli intelletti
umani che non possono vede intera l’essenza divina,
causa prima di tutte le cose! |
133 |
E voi,
mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti; |
|
133 |
E voi, mortali, siate
cauti nel giudicare, perché nemmeno noi, che pure
vediamo Dio direttamente, conosciamo ancora tutti gli
eletti futuri; |
136 |
ed ènne
dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s'affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo». |
|
136 |
e ci è dolce tale limite
imposto alla nostra conoscenza, perché la nostra
felicità si perfeziona appunto in questo piacere, per
cui tutto quello che Dio vuole, anche noi vogliamo”. |
|
L'aquila, dopo aver presentato le principali anime dei
giusti, chiude il ciclo della sua varia, mossa eppure
unitaria rappresentazione ritornando al mistero della
giustizia divina, dal quale aveva prese inizio il suo
discorso. Simbolo della giustizia terrena e di quella
divina, "essa inquadra la celebrazione della giustizia
umana nella contemplazione mistica della giustizia
divina, profondante le sue radici negli abissi
imperscrutabili della sapienza infinita" (V. Rossi),
mentre Dante, dopo la scolastica disquisizione dei versi
precedenti, ritrova un clima di vera poesia. Il tema
teologico si risolve in tema poetico grazie, ancora una
volta, alla pienezza della fede, all'entusiasmo per la
verità acquisita, all'effusione di gioia che dall'una e
dall'altro deriva. Ma ad alimentare questo entusiasmo è
soprattutto la raggiunta certezza che la perfezione
della giustizia divina e anche perfezione di
misericordia e di amore. |
139 |
Così da
quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina. |
|
139 |
In questo modo da quella
divina figura dell’aquila, per rischiarare la mia
limitata intelligenza, mi fu data questa spiegazione,
fonte di dolcezza. |
142 |
E come a
buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista, |
|
142 |
E come labile suonatore di
cetra accorda il suono delle vibranti corde alla voce
del buon cantore, per cui il canto diventa più
piacevole, |
145 |
sì, mentre
ch'e' parlò, sì mi ricorda
ch'io vidi le due luci benedette,
pur come batter d'occhi si concorda, |
|
145 |
così, durante il discorso
dell’aquila, ricordo che vidi le due anime luminose (di
Traiano e di Rifeo), proprio con la stessa simultaneità
con la quale battono le palpebre degli occhi, |
148 |
con le
parole mover le fiammette. |
|
148 |
muovere le loro fiammelle
in accordo con le parole dell’aquila. |
|
|
|
 |
 |
 |
 |
|