|
DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PARADISO
CANTO III° |
 |
 |
 |
 |
1 |
Quel sol che
pria d'amor mi scaldò 'l petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto; |
|
1 |
Beatrice, quel sole che ancor fanciullo mi aveva acceso
il cuore d’amore, mi aveva rivelato, portando prove e
confutando opinioni erronee, il dolce volto della bella
verità (sulle macchie lunari); |
4 |
e io, per
confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer più erto; |
|
4 |
e io, per dichiararmi
corretto (del mio errore) e persuaso (della verità),
levai il capo più diritto tanto quanto conveniva per
parlare (a Beatrice con la dovuta riverenza); |
7 |
ma visïone
apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne. |
|
7 |
ma mi apparve uno
spettacolo che tenne la mia attenzione così strettamente
legata a se, per vederlo, che non mi ricordai di fare la
mia dichiarazione. |
10 |
Quali per
vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi, |
|
10 |
Come attraverso vetri
trasparenti e chiari, oppure attraverso acque limpide e
tranquille, ma non così profonde che il loro fondo non
possa essere visto i lineamenti |
13 |
tornan d'i
nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille; |
|
13 |
dei nostri volti si riflettono così tenui, che una perla
su una bianca fronte non è percepita con minore
difficoltà dai nostri occhi, |
16 |
tali vid' io
più facce a parlar pronte;
per ch'io dentro a l'error contrario corsi
a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte. |
|
16 |
altrettanto indistinti
vidi molti volti nell’atteggiamento di chi sta per
parlare; per cui io caddi nell’errore contrario a quello
che fece nascere l’amore fra Narciso e la fonte. |
|
Dante scambia i volti delle anime beate, che ora gli
appaiono, per immagini riflesse, commettendo così
l'errore opposto di Narciso, che, specchiandosi
nell'acqua di una fonte, credette di essere di fronte ad
una persona vera e si innamorò di quell'ombra riflessa
(Ovidio - Metamorfosi III. versi 413-510). Il ritorno,
all'inizio del canto III, ad un contenuto più
decisamente sentimentale e descrittivo di contro a
quello scientifico-morale delle macchie lunari, recupera
l'esperienza delle Rime giovanili: l'impalpabile
atmosfera di quel tempo felice (quel sol che pria d'amor
mi scaldò 'l petto), la stessa ricchezza affettiva
capace di conferire un tono intimo e raccolto
all'espressione (di bella verità m'avea scoverto... il
dolce aspetto), l'identico uso di immagini incorporee,
vaghe, sognate (quali per vetri trasparenti e tersi ...
), nelle quali la realtà sembra pronta a dissolversi in
notazioni pittoriche (debili sì, che perla in bianca
fronte) o in esiti musicali (non sì profonde che i fondi
sien persi) fatti di suoni senza stridore, trasparenti
come acque nitide e tranquille. Anche la tecnica
espressiva è uguale: "Una sintassi sempre limpida e
lineare, senza artificiosa tensione retorica, senza
inversioni e tortuosità di costrutti, senza innaturali
fratture o chiasmi e stacchi" (Marti). Nel ritorno alle
suggestioni, alle delicatezze e alla sensibilità
raffinata della lirica giovanile, il Poeta chiederà
aiuto per rendere in modo concreto il mondo nel quale la
materia si scorpora nello spirito o diventa una
vibrazione luminosa. Su questo ritorno, che gli anni e
le vicende della vita hanno arricchito di esperienza e
approfondito, il Poeta verrà costruendo non solo
l'episodio di Piccarda, ma tutta la poesia del Paradiso. |
19 |
Sùbito sì
com' io di lor m'accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi; |
|
19 |
Non appena io
m’accorsi di loro, ritenendole immagini riflesse in uno
specchio, volsi indietro gli occhi, per vedere di chi
fossero; |
22 |
e nulla
vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. |
|
22 |
ma non vidi nulla, e tornai a volgerli davanti a me
fissandoli negli occhi della mia dolce guida, la quale,
sorridendo, ardeva nelle sue sante pupille. |
25 |
«Non ti
maravigliar perch' io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra 'l vero ancor lo piè non fida, |
|
25 |
“Non ti meravigliare se io sorrido” mi disse “a causa
del tuo pensiero puerile, poiché esso non poggia ancora
saldamente sulla verità, |
28 |
ma te
rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto. |
|
28 |
ma, come al solito, ti
riconduce verso ipotesi vane: ciò che tu vedi sono anime
vere (non immagini riflesse ), relegate in questo cielo
per inadempimento dei loro voti. |
|
Nel canto IV (versi 28-39), Dante spiegherà
l'ordinamento morale del paradiso, rilevando la
distinzione fra un paradiso fisico e un paradiso
spirituale. Poiché ogni anima è collocata nel cielo che
con la sua influenza ne ha determinato l'indole al
momento dei concepimento o della nascita, quelle che non
hanno adempiuto completamente i voti fatti appaiono nel
cielo della Luna. Infatti a coloro che sono sottoposti
al suo influsso deriva, secondo il Buti, una certa
"mutabilità" nel loro desiderio di fronte al bene. |
31 |
Però parla
con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi». |
|
31 |
Perciò parla con loro e
ascoltale e credi (a quanto ti diranno); perché la luce
divina che le appaga non permette che esse si
allontanino da lei.” |
34 |
E io a
l'ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza'mi, e cominciai,
quasi com' uom cui troppa voglia smaga: |
|
34 |
Ed io mi rivolsi all’ombra
che sembrava più desiderosa di parlare, e incominciai,
quasi nello stesso modo di colui che è turbato da un
intenso desiderio: |
37 |
«O ben
creato spirito, che a' rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s'intende mai, |
|
37 |
“O spirito creato per la
tua salvezza, che scaldandoti ai raggi della vita divina
provi quella dolce beatitudine che, se non la si gusta
direttamente, non potrà essere mai capita, |
40 |
grazïoso mi
fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond' ella, pronta e con occhi ridenti: |
|
40 |
mi sarà gradito se vorrai
soddisfare il mio desiderio rivelandomi il tuo nome e la
vostra condizione”. Per questo essa, prontamente e con
occhi sorridenti: |
43 |
«La nostra
carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte. |
|
43 |
“Il nostro amore non si
nega ad un desiderio legittimo allo stesso modo
dell’amore divino che vuole simile a se tutta la corte
celeste. |
46 |
I' fui nel
mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella, |
|
46 |
Nel mondo io fui monaca; e
se la tua memoria ricorda con attenzione, l’essere io
diventata più bella ( passando dalla vita terrena a
quella celeste ) non mi nasconderà a te, |
49 |
ma
riconoscerai ch'i' son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda. |
|
49 |
ma riconoscerai che sono
Piccarda, che, posta qui con queste altre anime elette,
godo della beatitudine nel cielo che gira più
lentamente. |
|
Piccarda, figlia di Simone Donati e sorella di Forese,
il caro amico di gioventù di Dante, e di Corso, l'odiato
capo della fazione dei Neri a Firenze, è stata ricordata
anche nel Purgatorio (canto XXIV, versi 13-15). Sappiamo
che entrò in giovane età nell'ordine delle Clarisse e
che ne uscì per sposare un nobile fiorentino, Rossellino
della Tosa, uno dei più turbolenti rappresentanti dei
Neri. Secondo alcuni cronisti del tempo sarebbe stata
rapita dal chiostro dal fratello Corso, che la costrinse
con la forza a sposare il della Tosa. Questa è pure la
versione fornita da Dante, anche se si può pensare,
invece che a un rapimento vero e proprio, a una serie di
forti pressioni esercitate su Piccarda perché
abbandonasse il convento. Non si sa l'anno in cui il
fatto avvenne (forse tra il 1283 e il 1293), ma l'Ottimo
tramanda una notizia secondo la quale Piccarda, subito
dopo essere stata rapita dal chiostro, "infermò e finì
li suoi dì e passò allo sposo del cielo... E dicesi che
la detta infermità e morte corporale le cancedette Colui
ch'è datore di tutte le grazie, in ciò esaudiendo li
suoi devoti preghi". |
52 |
Li nostri
affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati. |
|
52 |
I nostri sentimenti che si
infiammano soltanto per ciò che piace allo Spirito
Santo, gioiscono perché conformati all’ordine universale
stabilito da Dio. |
55 |
E questa
sorte che par giù cotanto,
però n'è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto». |
|
55 |
E questa condizione che
appare tanto umile (essendo noi nell’ultimo dei cieli),
ci è stata assegnata per questo, perché i voti da noi
fatti rimasero inosservati, e non furono adempiuti in
qualche parte”. |
58 |
Ond' io a
lei: «Ne' mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da' primi concetti: |
|
58 |
Per questo io le risposi:
“Nelle vostre mirabili sembianze traspare una luce
sovrannaturale che vi trasfigura rispetto a quello che
eravate in terra: |
61 |
però non fui
a rimembrar festino;
ma or m'aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m'è più latino. |
|
61 |
perciò non fui sollecito
nel ricordare; ma ora ciò che mi dici (di te) mi aiuta,
così che mi è più facile riconoscerti. |
|
Un quadro "muto, pallido, immobile, ma animato da un
segreto movimento spirituale" (Momígliano) ha presentato
le prime anime beate nei versi 10-16: esse sembrano
emergere da uno spazio infinito, nel quale alla fine
torneranno a dissolversi (versi 122-123), mentre si sta
realizzando in loro quel processo di smaterializzazione
o di dissolvenza, che le porterà, nei cieli seguenti, a
trasformarsi in un mobile tripudio di luci, in una
vibrazione di canti e preghiere, in un inarrestabile
movimento di danza. I beati della prima sfera conservano
ancora qualcosa della primitiva figura umana (le
postille debili del volto), che permette dì intuire la
incorporea leggerezza di quei visi "appena profilati e
affioranti" (Grabher), che già riflettono la quieta
trasparenza del cielo e la pace distesa dello spirito
(verso 85). Ma la presenza del divino che si scopre
all'anima, opera una trasfigurazione (trasmuta), per cui
Piccarda può ben affermare di esser più bella: "In
quella poeticissima incapacità di precisare - non so che
divino - senti lo smarrimento contemplativo di Dante" (Grabher)
di fronte all'anima che è fissa in Dio, completamente
appagata dalla sua visione. Siamo lontani ormai dalle
figure e dalle scene costruite di materia e di violento
realismo dell'Inferno come da quelle fatte di ombre e di
contorni ammorbiditi e sottili del Purgatorio. |
64 |
Ma dimmi:
voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?». |
|
64 |
Ma sciogli un mio dubbio:
voi che dimorate felici in questa sfera, non desiderate
un grado di beatitudine più alto per contemplare più da
vicino Dio e per diventare più intimamente amici con Lui
(cioè: per amarlo ed essere amati di più)? |
67 |
Con quelle
altr' ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch'arder parea d'amor nel primo foco: |
|
67 |
Piccarda dapprima. sorrise
lievemente con quelle altre anime; poi mi rispose
illuminata da tanta letizia, che ben mostrava di ardere
nel fuoco dell’amore divino: |
|
Dio è il primo loco, cioè il primo amore, per la
sublimità del suo sentimento e perché da Lui deriva ogni
amore particolare. Una interpretazione meno recente e
"mai accettabile per la degradazione del motivo ch'essa
comporta nel paragone" (Mattalia), propone per il verso
69 questa spiegazione: come arde una fanciulla nella
fiamma del primo amore. |
70 |
«Frate, la
nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta. |
|
70 |
“Fratello, la nostra
volontà è appagata dalla potenza dell’amore; divino, che
ci fa desiderare solo ciò che possediamo, e non suscita
in noi il desiderio di altro. |
73 |
Se
disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne; |
|
73 |
Se desiderassimo essere
collocate in un grado più alto, i nostri desideri
discorderebbero dalla volontà di Colui che ci ha
giudicate degne del cielo della Luna; |
76 |
che vedrai
non capere in questi giri,
s'essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri. |
|
76 |
cosa che vedrai non aver
luogo in queste sfere celesti, se qui è necessario
vivere sotto il segno dell’amore, e se tu esamini
attentamente la natura di questo amore. |
79 |
Anzi è
formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch'una fansi nostre voglie stesse; |
|
79 |
Anzi è condizione
essenziale a questo stato di beatitudine mantenersi
nell’ambito del divino volere, in virtù del quale le
nostre volontà singole diventano una sola; |
82 |
sì che, come
noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com' a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia. |
|
82 |
così che, il modo in cui
in paradiso le anime beate sono distribuite di cielo in
cielo, piace a noi tutti come piace a Dio che ci infonde
desideri conformi al suo volere. |
85 |
E 'n la sua
volontade è nostra pace:
ell' è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella crïa o che natura face». |
|
85 |
E nella volontà divina è
la nostra pace: questa volontà è simile a un mare verso
il quale ritornano tutti gli esseri che essa crea
direttamente e che la natura (come causa seconda)
produce”. |
88 |
Chiaro mi fu
allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d'un modo non vi piove. |
|
88 |
Allora compresi
chiaramente come ogni parte del cielo è pienezza di
beatitudine, sebbene la grazia divina non scenda nella
stessa misura in ogni luogo. |
|
Anche la dimostrazione di Piccarda è di carattere
dottrinale-didascalico come quelle precedenti di
Beatrice (canto I, versi 103-141 e canto Il, versi
61-148), che tale dimostrazione richiama per una
identica solennità di argomento e dignità di stile, ma
che, poeticamente, supera in virtù di una maggiore
vibrazione lirica: il tema trattato - la beatitudine
intesa come il confluire armonico di tutti gli esseri in
Dio - diventa sentimento, anzi non è altro che il
sentimento d'amore che investe ed illumina in ogni parte
l'anima di Piccarda. La trattazione ha un primo avvio
nei versi 43-45: nel paradiso l'amore che lega le anime
beate a Dio e fra di loro prende norma da quello divino,
che vuole simile a sé tutta la sua corte. Per questo la
volontà dei beati si uniforma alla volontà divina,
accettando l'ordine universale stabilito da Dio (versi
52-54), anzi godendo di quanto Egli ama, vuole e
dispone. Ma il dubbio di Dante (non desiderano le anime
che sono poste nel cielo più basso un più alto loco?)
esige una dimostrazione più approfondita, poiché il modo
di pensare terreno e quello paradisiaco sembrano, in
questo momento, opporsi senza possibilità di accordo.
Nel mondo, infatti, la visione di una condizione
migliore di vita porta al desiderio di conquistarla, se
non addirittura all'invidia. Poco fa, invece, Piccarda
ha affermato che posta qui con questi altri beati, beata
sono in la spera più tarda. Da un punto di vista
oggettivo esiste nel mondo celeste una maggiore o minore
felicità (versi 89-90), corrispondente ad un maggiore o
minore merito, ma da un punto di vista soggettivo ogni
anima è assolutamente felice, perché il grado di
felicità ad essa assegnato è proporzionale alla sua
capacità di acquisto e di godimento, Ma l'ampio
distendersi delle parole di Piccarda trova il suo
momento di più intensa liricità allorché la beatitudine
che risplende nei mirabili aspetti delle anime viene
definita come l'adempimento, in ciascuna, della volontà
divina, per cui le singole volontà desiderano solo ciò
che desidera Dio. In questa suprema. volontà, che è
acquietamento di ogni aspirazione, trova pace ogni
creatura che si muove affannosamente per lo gran mar
dell'essere (canto I, 113): anche, il tormentato
pellegrino che dalle fiere della selva oscura è giunto
al sommo ben. La poesia dell'episodio di Piccarda
emerge, oltre che dal velato racconto della sua vita,
anche da questa zona che il Croce definirebbe
"strutturale", e che un critico attento come il Cosmo ha
considerato addirittura "la sostanza dell'episodio".
Certamente queste terzine, pur essendo sostenute, come
ogni parte, dottrinale nella Commedia, dalla
terminologia della Scolastica, si svolgono secondo le
commosse cadenze di un inno religioso: l'inno del
supremo abbandono della creatura in Dio. La forza
interiore che appoggia questi versi è rivelata dalla
presenza della triade fiamma-amore-desiderio: il motivo
del raggio luminoso, che ha aperto il canto, si
trasforma, infatti, nell'immagine della fiamma che arde
(verso 69), la luce di verità del verso 2 diventa ora
virtù di carità, che attira a sé ogni desiderio (fa
volerne... li nostri disiri... nostre voglie... a tutto
il regno piace), mentre la ripetizione insistente di
parole uguali o quasi uguali, come se la voce non
sapesse staccarsene, sottolinea la gioia inebriante
dell'anima. Si generano così "immagini di mistico ed
annegante struggimento in un ritmo costantemente
ascensionale... in un impasto di natura decisamente
lirica. Figurazione felicemente emblematica della
perfetta fusione tra verità ed amore, tra luce ed
ardore, è quella che traduce il tenersi dentro alla
divina voglia nell’ampia, infinita vastità del mare. al
qual tutto si muove ciò chella cria e che natura fece
(versi 86-87); un’immagine di naufragio e di beatitudine
immensa, di morte anche e d’annegamento in una vita
ebbra d’infinito, ove Iddio è eterno approdo d’eterno
amore...”(Marti). |
91 |
Ma sì com'
elli avvien, s'un cibo sazia
e d'un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia, |
|
91 |
Ma come accade che, se un
cibo sazia e di un altro rimane ancora il desiderio, si
chiede quello (di cui è rimasto il desiderio ) e si
ringrazia per quello (di cui si è sazi), |
94 |
così fec' io
con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola. |
|
94 |
così io ringraziai con
l’atteggiamento e con le parole Piccarda, e le chiesi di
rivelarmi quale fosse la tela (cioè il voto) che aveva
incominciato ma non finito . |
97 |
«Perfetta
vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela, |
|
97 |
"Una vita
virtuosa perfetta e un grande merito (acquistato presso
Dio) collocano in un cielo più alto una donna" mi disse
“secondo la cui regola giù nel vostro mondo si prendono
l’abito e il velo monacali, |
100 |
perché fino
al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma. |
|
100 |
affinché fino
alla morte si passi ogni giorno e ogni notte con Cristo,
lo sposo che accetta ogni voto il quale sia reso
conforme al suo volere dall’amore. |
|
"La storia della vita umana segue alla descrizione della
vita divina" (Malagoli) e viene introdotta dalla figura
di Santa Chiara d'Assisi (1194-1253), che, seguendo
l'esempio di San Francesco, abbandonò il mondo e fondò
un ordine di clausura (l'ordine delle Clarisse). La
metafora Cristo-sposo, che regge nei versi 100-102,
prelude a quelle analoghe con le quali San Tommaso
presenterà San Francesco nel canto XI del Paradiso. |
103 |
Dal mondo,
per seguirla, giovinetta
fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta. |
|
103 |
Per seguire la via di
Santa Chiara abbandonai, ancora giovinetta, la vita del
mondo, e vestii il suo abito, e promisi di osservare la
regola del suo ordine. |
106 |
Uomini poi,
a mal più ch'a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi. |
|
106 |
In seguito uomini, più
avvezzi a fare il male che il bene, mi rapirono fuori
dal dolce chiostro. Dio solo sa quale fu poi la mia
vita. |
|
Piccarda è, con Francesca e Pia, una delle figure su cui
la critica ha amato soffermarsi per cogliere, attraverso
l'esame di ogni sfumatura, l'origine della commozione da
esse suscitate. Se il momento dell'inno sulla
beatitudine è il più acceso e vibrante, i versi 46-48 e
103-108 sono i più umani, i più vicini a noi, perché
ricchi di elementi che, nonostante il loro trasferimento
su un piano sovrannaturale, mantengono intatto il pathos
di sentimenti e ricordi terreni. Il racconto di Piccarda
è scarno, chiuso fra due momenti (lui nel mondo vergine
sorella e fuor mi rapiron della dolce chiostra) che
trovano la loro conclusione, il loro porto di pace solo
in Dio (Iddio si sa qual poi mia vita fusi) : è propria
di Dante la "capacità di disegnare una vita con una
linea e spirarvi attorno l'aura di un'anima" (Momigliano).
La concretezza poetica della figura di Piccarda nel
canto III trova la sua anticipazione nelle luminose
espressioni con le quali il fratello Forese l'ha,
presentata nel Purgatorio (canto XXIV, versi 13-15): la
mia sorella, che tra bella e bona non so qual lesse più,
triunfa lieta nell'atto Olimpo già di sua corona. In
questi versi già era prospettata, accanto al trionfo
paradisiaco, la difficoltà della sua conquista,
raggiunta dopo una lotta che ha meritato a Piccarda,
come agli antichi atleti vittoriosi, la corona del
premio. Nasce così l'elegia di Piccarda: una storia
tutta terrena, che la luce divina ha ormai reso
fuggevole e velato ricordo. Il Grabber, commentando
questi versi, ha trovato forse gli accenti più
suggestivi per illuminare la figura di questa fiorentina
che, apparendo improvvisamente nel primo cielo del
paradiso, sembra riportare a Dante il ricordo della
Firenze della sua giovinezza, di una città fatta di
violenze ma anche di tenaci virtù, nella quale il Poeta
aveva vissuto il suo amore per Beatrice e creato, nella
Vita Nova, una raffinata poesia religiosa. "Un cenno
solo - dal mondo per seguirla - e vedi la terra con le
sue lotte e già senti l'anima che se ne allontana
(fuggimi); e basta una parola - giovinetta - per dare
alla vergine sorella quel tanto di umano che la fa
sentire unita al « mondo» ma come una candida, fragile
creatura, la cui volontà di rinunzia si fa per questo
più grande. E l'abito la chiude in un totale isolamento
e la mistica « promessa» (verso 105) la invola agli
occhi dei terreni. Ma ecco la violenza umana che la
strappa alla dolce chiostra, a quella vita di
smarrimento in Dio, che tanto rimpianto suscita nel suo
cuore, anche se larvatamente espresso in un aggettivo
solo: dolce. Ma tutto qui si sublima in un superiore
dominio di sé che è pudore, raccoglimento in Dio: anche
il tormento e la tristezza del bene perduto, anche la
colpa degli, uomini. Anzi per essi c'è, non dico una
parola d'accusa, ma un profondo, sebbene tacito
compianto per essere a mal più ch'a bene usi; tanto che,
per un'alta carità, neppure li individua... e,
all'infuori del rimpianto per la dolce chiostra, non ha
malinconie per cose terrene, anzi, superata del tutto la
vicenda umana... tutta si rifugia in Dio: Iddio si sa
qual poi mia vita fusi. Qual poi... : ... non un cenno
al tormento della sua vita qual fu poi, tra gli uomini,
fino alla morte... Ombra e silenzio, come già fece della
giovinetta il monastico velo, chiudono il suo cuore in
quello d'Iddio. |
109 |
E quest'
altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s'accende
di tutto il lume de la spera nostra, |
|
109 |
E questo altro spirito
splendente che vedi alla mia destra e che si illumina di
tutta la luce del nostro cielo, |
112 |
ciò ch'io
dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l'ombra de le sacre bende. |
|
112 |
considera come riferito
anche a se ciò che io dico di me: fu suora, e le fu
strappato dal capo il velo monacale così come avvenne
per me (cioè con la violenza). |
|
Quest'altro splendor: è Costanza, figlia di Ruggero Il
d'Altavilla e ultima discendente della casa normanna.
Nata nel 1154, sposò nel 1185 l'imperatore Enrico VI di
Svevia, portandogli in dote il regno di Sicilia. Rimasta
vedova nel 1197, fu reggente e tutrice del figlio
Federico II. Morì nel 1198. Gli ambienti guelfi,
ostilissimi agli Svevi (Federico II e, poi, Manfredi),
raccolsero la leggenda secondo la quale Costanza si
sarebbe ritirata in un monastero di Palermo. Da qui
sarebbe stata fatta uscire per ordine delle autorità
ecclesiastiche, che avrebbero preparato il suo
matrimonio con Enrico VI, affinché il regno normanno,
che ultimamente si era mostrato ribelle nei confronti
della Chiesa, entrasse a far parte dei domini
dell'Impero (cfr. Villani I Cronaca V, 16). Il Poeta,
pur accogliendo questa versione dei fatti, elimina ogni
asprezza polemica e, come già nel Purgatorio canto III,
verso 113), presenta la figura di Costanza in un'aura di
particolare solennità, che ha spinto alcuni critici a
vedere nello splendore di santità che circonda la gran
Costanza anche lo splendore della dignità imperiale da
lei rivestita in vita. |
115 |
Ma poi che
pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta. |
|
115 |
Ma dopo che fu ricondotta
tutta al mondo contro la su volontà e contro ogni norma
morale e giuridica non abbandonò mai dentro di se il
velo monacale. |
118 |
Quest' è la
luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza». |
|
118 |
Questo è lo spirito
luminoso della grande Costanza che dal secondo
imperatore della casa di Svevia generò il terzo e ultimo
rappresentante”. |
|
Costanza, da Enrico VI, secondo imperatore della casa
sveva, generò Federico Il, terzo ed ultimo sovrano
svevo, il quale fu l' "ultimo, imperadore de li Romani"
(Convivio IV, III, 6), perché dopo la sua morte nel 1250
l'Impero, secondo Dante, restò vacante fino
all'incoronazione di Arrígo VII di Lussemburgo nel 1312.
Il termine vento per indicare i rappresentanti della
casa sveva, vuole forse riferirsi alle vicende di questa
famiglia e alla forza sconvolgitrice con cui essa passò
nella storia europea. Soave è la forma italianizzata,
usata in quel tempo, del tedesco Schwaben, Svevia. |
121 |
Così
parlommi, e poi cominciò 'Ave,
Maria' cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave. |
|
121 |
Così mi parlò, e poi
incominciò a cantare “Ave, Maria”, e cantando si dileguò
come (scompare) nelI’acqua profonda un oggetto pesante. |
124 |
La vista
mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio, |
|
124 |
I miei occhi, che la
seguirono finché fu possibile, dopo che non la videro
più, cercarono Beatrice, |
127 |
e a Beatrice
tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse; |
|
127 |
oggetto del loro desiderio
dominante, e si volsero completamente verso di lei; ma
ella risplendette davanti al mio sguardo di una luce
così folgorante che dapprima la mia vista non riuscì a
sopportarla; |
130 |
e ciò mi
fece a dimandar più tardo. |
|
130 |
e ciò mi rese più timido
ad interrogarla (intorno ad altri dubbi). |
|
|
|
 |
 |
 |
 |
|