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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XIII° |
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1 |
Noi eravamo
al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala. |
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1 |
«Eravamo giunti al termine della scala (che porta al
secondo girone), dove viene tagliato per la seconda
volta il monte che purifica dal male chi lo ascende |
4 |
Ivi così una
cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l'arco suo più tosto piega. |
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4 |
lì una (seconda) cornice
cinge tutt'intorno il monte, così come la prima; salvo
che la sua curvatura (poiché la montagna si restringe
man mano verso l'alto) è più stretta. |
7 |
Ombra non lì
è né segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia. |
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7 |
Qui non appaiono anime né
figurazioni scolpite; si mostrano la parete e il piano
nudo e liscio col colore livido della pietra. |
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Il sorriso di Virgilio, con cui si era chiuso il canto
XII, pare continuare durante il percorso dal primo al
secondo girone, assecondando la raggiunta serenità del
suo discepolo (canto XII, versi 115-120), mentre lo
sguardo si distende tranquillo sulla cornice che lega
dintorno il poggio: è un inizio lento e solenne, con un
calcolato richiamo all'apertura del canto precedente,
che doveva anticipare anch'essa il senso di misteriosi
eventi. In un secondo tempo, poiché ombra non li è né
segno che si paia, nei poeti ritorna il tremore della
solitudine che avevamo avvertito nel lito diserto, e i
loro occhi, abituati al bianco fulgore del marmo della
cornice precedente e al movimento, per quanto lento, dei
superbi, vengono quasi legati al livido color della
petraia, che grava ossessionante su un paesaggio rozzo,
uniforme, desolato, che si oppone con il suo squallore
allo stato d'animo gioioso dei due pellegrini. Il Poeta,
in queste tre terzine, ha già tradotto l'atmosfera
spirituale e poetica del canto, che si definirà in una
concreta individuazione di particolari - nella
descrizione della natura, nella ricerca delle
similitudini, nella raffigurazione degli invidiosi, nel
ricordo di avvenimenti storico-politici - e in uno
scoperto desiderio di trascendere quegli umani
particolari: un gioco dialettico di due momenti in una
sapiente alternanza, che continuerà anche nell'unico
personaggio del canto, in Sapia, rendendolo "uno dei più
complessi e delicati impasti di ritratto della Divina
Commedia" (Momigliano). |
10 |
«Se qui per
dimandar gente s'aspetta»,
ragionava il poeta, «io temo forse
che troppo avrà d'indugio nostra eletta». |
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10 |
«Se qui aspettiamo le
anime per chiedere informazioni» osservava Virgilio, «io
temo che forse la nostra scelta della via tarderà
troppo.» |
13 |
Poi
fisamente al sole li occhi porse;
fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sé torse. |
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13 |
Poi rivolse intento lo sguardo verso il sole; (per
volgersi a destra dove si trovava il sole, essendo già
passato mezzogiorno) fece perno sul suo fianco destro, e
fece girare il fianco sinistro. |
16 |
«O dolce
lume a cui fidanza i' entro
per lo novo cammin, tu ne conduci»,
dicea, «come condur si vuol quinc' entro. |
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16 |
«O dolce luce nella quale
fidando io procedo nella nuova strada, guidaci » diceva
Virgilio « come è necessario guidare in questo girone. |
19 |
Tu scaldi il
mondo, tu sovr' esso luci;
s'altra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci». |
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19 |
Tu riscaldi
il mondo, tu risplendi sopra di esso: se un altro motivo
non spinge a seguire una via contraria, i tuoi raggi
devono essere sempre di guida.» |
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La preghiera che Virgilio innalza al sole è
un'invocazione della Grazia divina, secondo molti
commentatori antichi, è una preghiera rivolta alla
ragione naturale, che è la guida abituale dell'uomo
finché non interviene la sovrannaturalità della Grazia,
secondo quasi tutti i commentatori moderni. Tuttavia chi
legge ricorda con sforzo il sottinteso allegorico,
essendo la sua attenzione tutta presa da quell'«inno al
sole» trasferito dal mondo pagano a quello cristiano, da
quell'immagine vastissima di luce sospesa sopra il
inondo che "scalda" e "illumina", la quale, più che
ricordare il dolce color d'oriental zaffiro, dove
l'animo si abbandonava a un puro godimento estetico, è
impregnata dello stesso sentimento di profondo amore
verso il creato che regge nel Cantico delle Creature di
San Francesco l'inno di lode al sole: "Laudato sie, mi
signore, cum tucte le tue creature spetialmente messor
lo frate sole, lo quale iorna, et allumini per lui; et
ellu è bellu e radiante cum grande splendore; de te,
altissimo, porta significatione". |
22 |
Quanto di
qua per un migliaio si conta,
tanto di là eravam noi già iti,
con poco tempo, per la voglia pronta; |
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22 |
Avevamo già percorso nel girone tanto spazio, quanto nel
mondo si calcola per un miglio, in breve tempo, grazie
al nostro ardente desiderio, |
25 |
e verso noi
volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d'amor cortesi inviti. |
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25 |
quando si sentirono volare verso di noi, ma non si
videro, degli spiriti che pronunciavano cortesi inviti
alla carità. |
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Il fortissimo sentimento narrativo che costruiva in
rilievo e in sviluppo le sculture dei primo girone,
nulla tralasciando per una loro migliore determinazione,
viene sostituito da una tecnica « di suggerimento », che
nel momento stesso in cui accenna al fatto, lo trasforma
in un'eco misteriosa, la quale è percepita dai
penitenti, chiusi nella loro cecità, proprio grazie alla
sua forza suggestiva: la meditazione in loro è più
immediata che nei superbi, dove si deve svolgere prima
attraverso una via visiva, mentre, osserva il Grabher,
queste voci "si prolungano, come in una scia, dalle une
alle altre, nell'anima", cosicché "avanti che la prima
si sia spenta per il fatto di essersi allontanata....
balza nell'aria la seconda che dilegua anch'essa....
mentre la terza irrompe lasciando a Dante appena il
tempo (e com'io... ecco ... ) di rivolgere la brevissima
domanda: padre, che voci son queste?" Sarà un «
crescendo » musicale e spirituale che dall'appello a
compiere un dono sale al sacrificio della vita per
salvare l'amico, per invitare infine all'eroismo
cristiano totale. |
28 |
La prima
voce che passò volando
'Vinum non habent' altamente disse,
e dietro a noi l'andò reïterando. |
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28 |
La prima voce che passò volando
pronunciò in tono alto «Non hanno vino», e passando
oltre noi continuò a ripetere quelle parole. |
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Nel secondo girone voci misteriose gridano esempi di
carità, il primo dei quali si riferisce a un passo del
vangelo di San Giovanni (Il, 1-10), in cui è descritto
il primo miracolo di Cristo, alle nozze di Cana, dopo
l'amoroso e sollecito intervento della Vergine in favore
degli ospiti rimasti senza vino. |
31 |
E prima che
del tutto non si udisse
per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste'
passò gridando, e anco non s'affisse. |
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31 |
E prima che non si udisse più per il
fatto che si allontanava, un'altra voce passò gridando
«Io sono Oreste», e anche questa non si arrestò. |
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Il secondo esempio ricorda l'amore fraterno che legava
Oreste, figlio di Agamennone, a Pilade. Il primo, che
voleva vendicare la morte del padre, uccidendone
l'assassino Egisto, venne scoperto e arrestato insieme
con Pilade. Iniziò fra i due una commovente gara, poiché
entrambi gridavano "Io sono Oreste", volendo Pilade
sostituirsi all'amico, per evitargli la morte, e
opponendosi Oreste al suo sacrificio. |
34 |
«Oh!», diss'
io, «padre, che voci son queste?».
E com' io domandai, ecco la terza
dicendo: 'Amate da cui male aveste'. |
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34 |
«Oh!» dissi, «padre mio, che voci sono
queste?» E non appena ebbi fatto questa domanda, ecco la
terza voce che diceva: «Amate coloro dai quali avete
ricevuto il male». |
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L'esempio supremo di carità è nel precetto dato da
Cristo nel discorso della montagna: "Amate i vostri
nemici" (Matteo V, 44; Luca VI, 27). |
37 |
E 'l buon
maestro: «Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia, e però sono
tratte d'amor le corde de la ferza. |
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37 |
E il valente maestro:
«Questo girone punisce il peccato d'invidia, e perciò le
corde di cui è fatta la sferza che punisce (le corde
della ferza: cioè gli esempi) sono vibrate dall'amore. |
40 |
Lo fren vuol
esser del contrario suono;
credo che l'udirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono. |
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40 |
Il freno (cioè l'esempio
per non cadere nel peccato) deve essere di contenuto
opposto al peccato: a mio giudizio, penso che udrai
questo esempio prima di giungere alla scala che porta al
terzo girone (al passo del perdono: dove sarà perdonato
il peccato d'invidia). |
43 |
Ma ficca li
occhi per l'aere ben fiso,
e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascun è lungo la grotta assiso». |
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43 |
Ma ficca lo sguardo con
attenzione attraverso l'aria, e vedrai un gruppo di
anime sedere davanti a noi, e ciascuna è appoggiata alla
roccia». |
46 |
Allora più
che prima li occhi apersi;
guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi. |
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46 |
Allora osservai con
maggior attenzione; guardai davanti a me, e vidi anime
ricoperte di manti dello stesso colore della pietra. |
49 |
E poi che
fummo un poco più avanti,
udia gridar: 'Maria, òra per noi':
gridar 'Michele' e 'Pietro' e 'Tutti santi'. |
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49 |
E quando ci fummo portati
un poco più avanti, udii gridare: «Maria, prega per
noi!»; udii gridare «Michele» e «Pietro», e «Tutti i
santi». |
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Gli invidiosi recitano le litanie dei santi, nelle quali
all'inizio è invocata per tre volte la Vergine, nella
parte centrale gli angeli (tra cui Michele) e gli
apostoli (tra cui Pietro) , mentre alla fine
l'invocazione si estende a tutti i santi. |
52 |
Non credo
che per terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel ch'i' vidi poi; |
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52 |
Non credo che nel mondo
esista oggi un uomo tanto duro, da non essere mosso a
compassione da quanto io vidi in seguito, |
55 |
ché, quando
fui sì presso di lor giunto,
che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto. |
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55 |
poiché, quando giunsi così
vicino ad essi, che la loro persona mi appariva
distinta, dagli occhi uscì
con le lagrime il dolore che mi gravava l'animo. |
58 |
Di vil
ciliccio mi parean coperti,
e l'un sofferia l'altro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti. |
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58 |
(I penitenti) mi
sembravano coperti di una povera veste dura e pungente,
e uno sosteneva l'altro con la spalla, e tutti erano
sostenuti dalla parete: |
61 |
Così li
ciechi a cui la roba falla,
stanno a' perdoni a chieder lor bisogna,
e l'uno il capo sopra l'altro avvalla, |
|
61 |
nello stesso atteggiamento
i ciechi, a cui manca il necessario, se ne stanno
davanti alle chiese durante le feste in cui si concedono
indulgenze per chiedere l'elemosina, e l'uno abbandona
il capo sulla spalla dell'altro, |
64 |
perché 'n
altrui pietà tosto si pogna,
non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna. |
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64 |
affinché la pietà penetri
subito nel cuore della gente, non solo per il suono
lamentoso delle parole, ma anche per l'aspetto che
chiede pietà non meno (delle parole). |
67 |
E come a li
orbi non approda il sole,
così a l'ombre quivi, ond' io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole; |
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67 |
E come ai ciechi il sole
non giova, così qui la luce del cielo non vuole
concedersi alle anime, di cui ora sto parlando, |
70 |
ché a tutti
un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora. |
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70 |
perché un filo di ferro
trapassa e cuce le palpebre a tutti i penitenti nello
stesso modo in cui si cuciono agli sparvieri selvatici,
quando non rimangono tranquilli. |
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La pena della cecità colpisce gli invidiosi in base a
una dura legge del contrappasso, perché i loro occhi,
che in vita godettero nell'osservare il dolore altrui,
sono ora chiusi alla luce del ciel: una cecità flsica
che dipende da quella cecità morale per cui essi
capovolsero la visione del mondo e delle cose,
sostituendo all'amore verso il prossimo il desiderio del
suo male. Per sottolineare la durezza del castigo Dante
ricorda, nei versi 71-72, un'operazione consueta che nel
Medioevo subivano gli sparvieri non ancora addomesticati
e irrequieti, ai quali venivano cucite le palpebre
affinché potessero essere più facilmente ammaestrati.
"Il pellegrino, che coi superbi andava di paro,
aggiogato ad una stessa penitenza, qui, senza accecarsi,
s'investe dell'atmosfera psicologica della cornice:
piange in silenzio, accenna a Virgilio quando vorrebbe
parlare, intona una allocuzione solennemente retorica,
sulla metafora della luce e sulla metafora del fiume,
subito ridiscende alle prime parole accorte di Sapia,
che accortamente lo corregge, e parla da vicino e
dimesso" (Apollonio), ed è in questo tono dimesso,
sommessamente intento, che si dispone la raffigurazione
degli invidiosi. L'elemento essenziale - la staticità è
di immediata determinazione nella natura, ridotta ad un
solo, immobilizzato termine, la rípa, a sua volta chiuso
nell'aspetto negativo, il livido color, anche se tale
natura appare priva di ogni travolgimento, di ogni
deformazione infernale, essendo riferibile, in ogni
momento, ad una misura umana (come... per salire al
monte... così s'allenta la ripa; canto XII, versi
100-108). Le ombre con manti al color della pietra non
diversi partecipano di questa stessa immobilità, non
scossa neppure dall'immagine dei mendicanti ciechi
abbandonati davanti alle chiese, creando un bassorilievo
uniforme, privo di qualsiasi movimento esteriore che non
sia quello delle lagrime (versi 83-84). fino a dare
l'impressione, ad una prima lettura, di una
esasperazione figurativa simile a quelle dell'Inferno.
Ma le due similitudini che si susseguono rivelano la
preoccupazione di riportare su un piano di contenuto
realismo, di preciso disegno quanto a quel piano
sembrava volersi sottrarre, perché la scena dei
mendicanti e l'immagine dei falconi dalle palpebre
cucite appartengono al mondo di normali esperienze del
Poeta. Inoltre queste similitudini ribadiscono tutta la
struttura realistica del canto, insieme con l'immagine
della ferza (versi 37-39). con quella del mento levato
in alto a guisa d'orbo (verso 102) e con lo svolgimento
di tutto il discorso di Sapìa, per fornire il
contrappunto alla misteriosa musicalità e lievità degli
esempi di carità. |
73 |
A me pareva,
andando, fare oltraggio,
veggendo altrui, non essendo veduto:
per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio. |
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73 |
Mi sembrava, mentre
camminavo. di compiere un atto scortese, perché io
vedevo gli altri, ma non ero da loro visto: perciò mi
rivolsi al mio saggio consigliere. |
76 |
Ben sapev'
ei che volea dir lo muto;
e però non attese mia dimanda,
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto». |
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76 |
Egli già sapeva che cosa
volevo dire io che tacevo; e per questo non aspettò la
mia domanda, ma disse: «Parla, e cerca di essere breve e
chiaro». |
79 |
Virgilio mi
venìa da quella banda
de la cornice onde cader si puote,
perché da nulla sponda s'inghirlanda; |
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79 |
Virgilio rispetto a me
procedeva dalla parte esterna della cornice, poiché
questa non è munita di nessuna sponda; |
82 |
da l'altra
parte m'eran le divote
ombre, che per l'orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote. |
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82 |
dall'altra parte (cioè a
sinistra) avevo le anime penitenti, le quali premevano
con tale forza attraverso l'orribile cucitura, che
bagnavano (di lagrime) le guance. |
85 |
Volsimi a
loro e: «O gente sicura»,
incominciai, «di veder l'alto lume
che 'l disio vostro solo ha in sua cura, |
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85 |
Mi rivolsi a loro e
incominciai a dire: «O anime sicure di vedere la divina
luce che è l'unico oggetto del vostro desiderio, |
88 |
se tosto
grazia resolva le schiume
di vostra coscïenza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume, |
|
88 |
possa la Grazia disperdere
presto le tracce impure della vostra coscienza, così che
attraverso essa il fiume dei ricordi possa scendere in
tutta la sua purezza (chiaro: cioè non intorbidato da
nessuna memoria della colpa), |
91 |
ditemi, ché
mi fia grazioso e caro,
s'anima è qui tra voi che sia latina;
e forse lei sarà buon s'i' l'apparo». |
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91 |
ditemi (in nome di questo
augurio), dal momento che mi sarà gradito e caro, se tra
di voi c'è qualche anima italiana; e forse (potendo io
procurarle suffragi) le sarà utile se io lo saprò». |
94 |
«O frate
mio, ciascuna è cittadina
d'una vera città; ma tu vuo' dire
che vivesse in Italia peregrina». |
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94 |
«Fratello, ciascuna di noi
è cittadina della città di Dio; ma tu vuoi sapere di
qualcuna che lontana dalla vera patria sia vissuta in
Italia.» |
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Nel Medioevo la distinzione fra la città terrena (o
Gerusalemme terrena) per indicare il mondo, e la città
celeste (o Gerusalemme celeste) per indicare il
paradiso, era di uso comune, e risaliva ad espressioni
bibliche, diventate poi patrimonio di tutta la
letteratura patristica. Poiché lo spirito che parla
pensa di avere davanti un suo compagno di pena, spiega
che la vera patria di ogni anima è il paradiso, mentre
la vita non è che un breve pellegrinaggio, un momentaneo
esilio, che è attesa e preparazione della vera città:
concetto centrale del pensiero cristiano e avvertito con
particolarissima intensità dal mondo medievale. |
97 |
Questo mi
parve per risposta udire
più innanzi alquanto che là dov' io stava,
ond' io mi feci ancor più là sentire. |
|
97 |
Mi parve di
udire come risposta queste parole un poco più oltre il
posto in cui mi trovavo, per cui io (avanzando) mi feci
sentire ancora più in là. |
100 |
Tra l'altre
vidi un'ombra ch'aspettava
in vista; e se volesse alcun dir 'Come?',
lo mento a guisa d'orbo in sù levava. |
|
100 |
Tra le altre
vidi un'anima che nel suo atteggiamento pareva
aspettare; e se qualcuno mi domandasse "Come (lo
mostrava)?", (risponderei che) sollevava il mento come
fa un cieco (quando aspetta). |
103 |
«Spirto»,
diss' io, «che per salir ti dome,
se tu se' quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome». |
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103 |
«O anima» dissi «che ti
sottometti alla pena per poter salire, se tu sei quella
che mi hai risposto, fatti conoscere o attraverso la
patria o attraverso il nome.» |
106 |
«Io fui
sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti. |
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106 |
«Io fui senese» rispose,
«e con queste altre anime purifico qui la mia vita
peccaminosa, supplicando in lagrime Dio affinché ci
conceda di vederLo. |
109 |
Savia non
fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia. |
|
109 |
Non fui saggia, sebbene il
mio nome fosse Sapia, e provai maggior gioia del male
altrui che del mio bene (lui delli altrui danni più
lieta assai che di ventura mia). |
|
Sapìa fu una nobildonna senese, moglie di Guinibaldo
Saracini, signore di Castiglione presso Montereggioni e
zia di Provenzano Salvani (cfr. canto XI, versi 109
sgg.). Gli ultimi studi intorno alla sua figura storica
hanno rivelato qualcosa di più dell'odio fierissimo che
portava ai suoi concittadini ghibellini, secondo quanto
afferma Dante. Sappiamo che protesse attivamente
l'ospizio per pellegrini fondato dal marito nei pressi
di Castiglione, che si trovava sulla strada più breve
per andare da Roma in Francia, e che negli ultimi anni
della sua vita cedette i suoi possedimenti a Siena. Morì
nel 1275.
Nel verso 109 Sapìa allude al fatto che il suo nome ha
la stessa radice etimologica di savia e sappiamo che per
influsso della Scolastica si diffuse in tutto il
Medioevo la concezione secondo la quale i nomi hanno uno
stretto rapporto con la sostanza di una cosa o con le
qualità di una persona; Dante stesso vi accenna a
proposito del nome di Beatrice nel capitolo XIII della
Vita Nova. |
112 |
E perché tu
non creda ch'io t'inganni,
odi s'i' fui, com' io ti dico, folle,
già discendendo l'arco d'i miei anni. |
|
112 |
E affinché tu non creda
che io t'inganni, ascolta se non sono stata, come ti
dico, folle, mentre l'arco della mia vita stava già
declinando (e avrei dovuto essere saggia). |
115 |
Eran li
cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co' loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch'e' volle. |
|
115 |
I miei concittadini presso
Colle erano venuti a battaglia con i loro nemici, ed io
pregavo Dio che fossero sconfitti (di quel ch'e' volle:
di quello che egli volle, perché furono realmente
vinti). |
118 |
Rotti fuor
quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari, |
|
118 |
Qui furono sconfitti e
conobbero l'amarezza della fuga; e vedendo
l'inseguimento fatto dai nemici, ne derivai una gioia
non paragonabile a nessun'altra, |
121 |
tanto ch'io
volsi in sù l'ardita faccia,
gridando a Dio: "Omai più non ti temo!",
come fé 'l merlo per poca bonaccia. |
|
121 |
tanto che levai verso il
cielo il volto con folle audacia, gridando a Dio: "Ormai
non ti temo più (avendo ricevuto soddisfazione)!", come
fa il merlo quando vede un po' di sereno. |
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Nel giugno 1269 i ghibellini senesi e i loro alleati
furono sconfitti dai guelfi fiorentini a Colle di
Valdelsa: 'La città di Siena... ricevette maggiore danno
de' suoi cittadini in questa sconfitta, che non fece
Firenze a quella di Montaperti" (Villani - Cronaca VII,
31). Le parole di Sapìa nel verso 123 riecheggiano una
favola molto diffusa nel Medioevo: un merlo, alla fine
di gennaio, vedendo un po' di bel tempo, incomincia a
cantare credendo che l'inverno sia già passato,
facendosi beffa di tutti gli altri uccelli ed
esclamando: "Domine, più non ti temo". |
124 |
Pace volli
con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo, |
|
124 |
Mi riconciliai con Dio
alla fine della mia vita; e il mio debito verso di Lui
non sarebbe ancora risarcito per mezzo della penitenza, |
127 |
se ciò non
fosse, ch'a memoria m'ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe. |
|
127 |
se non fosse avvenuto
questo, che mi ricordò nelle sue sante preghiere Pier
Pettinaio, il quale per carità ebbe pietà di me. |
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Pier Pettinaio, nato forse alla fine del secolo XII,
visse a Siena, dove tenne una bottega di pettini (donde
il soprannome); fu terziario francescano e morì nel 1289
in fama di santità.
Sapìa è uno di quei personaggi danteschi intorno ai
quali l'esame critico ha offerto i risultati più
diversi, perché il contrasto è insito nella sua stessa
figura, oscillante fra il polo del terreno e quello del
divino, fra la presenza nettissima del peccato e la
presenza, altrettanto certa, del rimorso. Il Mattalia
ritiene di trovarsi di fronte ad "una acida e altezzosa
malalinqua", nella quale l'abito dell'invidia è ancora
operante, ad un "personaggio nient'affatto caro e
dolce", che chiude alla fine la sua apparizione con una
velenosa battuta a carico dei Senesi, mentre per il
Grabher ella ritrae il suo antico carattere peccaminoso
per trascenderlo in una spietata analisi di sé, fino
all'amarezza grottesca del paragone col merlo, dove si
infligge la massima umiliazione, per poi placarsi
nell'abbandono alla pace di Dio e alle preghiere di un
umile "pettinaio". Per il critico anche l'ironia finale
intorno ai Senesi è pacata e soffusa di tristezza, senza
alcun ritorno alla malignità terrena, che sarebbe fuori
di posto nella serietà del Purgatorio. Ma l'ispirazione
del Poeta è libera di rivelare, nell'austerità della
struttura penitenziale, i tratti salienti del carattere
terreno dei suoi personaggi, di conservare parte della
loro natura e delle loro tendenze (Belacqua è ancora un
pigro, Omberto Aldobrandeschi assume ancora un
atteggiamento superbo). A maggior ragione poi il Poeta
vorrà mettere in rilievo in Sapìa quel tono di mordace
ironia, di aperta maldicenza, di pronta litigiosità, che
è proprio dell'animo toscano e che costituisce una parte
dello stesso carattere dantesco. Sapìa, dunque, non è
"la più notevole personificazione od allegoria
dell'invidia, che mai sia stata immaginata", come
vorrebbe lo Zenatti, ma un carattere forte tanto nella
colpa quanto nell'espiazione, pronto e intensamente
mordace, ma anche risoluto nel pentimento e nel
riconoscimento degli altrui meriti; una donna, giudica
il Biondolillo, che, pur conservando la sua delicata
femminilità (o frate mio), fa intravedere risolutezza di
sentimenti e mal celati impeti di durezza, come anche
slanci di fraternità e di carità. Corregge con forza
l'espressione di Dante (versi 95-96), con durezza si
duole della sua vita ria, l'intensità del suo pentimento
la spinge a "Iagrimare" per vedere Dio, ride con
profonda amarezza di sé, che non fu savia sebbene si
chiamasse Sapìa. Giudica folle l'invida contro i suoi
concittadini ghibellini, ma la memoria della loro
sconfitta è incancellabile nella sua mente, come
incancellabile è il ricordo del suo compiacimento di
fronte a quella disfatta, del suo gesto orgoglioso di
fronte a Dio, gesto che ora fa diventare ironicamente
quello del merlo. Solo in su lo stremo si pentì, ma
"volle" fare pace con Dio da pari a pari, finché la sua
fierezza e il suo orgoglio si abbattono di fronte alle
sante orazioni di Pier Pettinaio, in un fervore di
carità che si manifesterà in seguito nel riconoscimento
del gran segno dell'amore divino per Dante, per essere
poi superato dall'antica, maligna ironia che la spinge a
deridere la gente vana. |
130 |
Ma tu chi
se', che nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
sì com' io credo, e spirando ragioni?». |
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130 |
Ma chi sei tu che vai
interrogandoci sulla nostra condizione, e porti gli
occhi non cuciti, così come penso (Sapìa si è accorta
che Dante è riuscito ad individuarla), e parli come un
vivo?» |
133 |
«Li occhi»,
diss' io, «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l'offesa
fatta per esser con invidia vòlti. |
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133 |
«Gli occhi» dissi «mi
saranno anche qui tolti, ma per breve tempo, perché poca
è l'offesa che essi hanno fatta (a Dio) per essersi
volti a guardare con invidia (il prossimo). |
136 |
Troppa è più
la paura ond' è sospesa
l'anima mia del tormento di sotto,
che già lo 'ncarco di là giù mi pesa». |
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136 |
Maggiore è il timore che
tiene sospesa la mia anima a causa della pena del girone
precedente (di sotto: dove si espia il peccato della
superbia), tanto che già sento gravarmi addosso il peso
di quei massi.» |
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Nel canto degli invidiosi è la confessione della
superbia di Dante, superbia di stirpe e superbia di
ingegno, che egli ricorderà in altri passi del suo poema
e che i suoi più antichi biografi misero concordemente
in luce: "fu il nostro poeta di animo alto e disdegnoso
molto... Molto, simigliantemente, presunse di sé...
Vaghissimo fu e d'onore e di pompa, per avventura più
che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto"
(Boccaccio - Vita di Dante). |
139 |
Ed ella a
me: «Chi t'ha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
E io: «Costui ch'è meco e non fa motto. |
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139 |
Ed ella mi rispose: «Chi
ti ha dunque guidato qua su tra noi, se ritieni di dover
ritornare tra i superbi?» Ed io: «Questo che è con me,
ma non parla. |
142 |
E vivo sono;
e però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova
di là per te ancor li mortai piedi». |
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142 |
E sono ancora vivo; e
perciò chiedimi pure, o anima destinata alla salvezza,
se desideri che in terra mi adoperi (mova... ancor li
mortai piedi) per procurarti suffragi (per te)». |
145 |
«Oh, questa
è a udir sì cosa nuova»,
rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami;
però col priego tuo talor mi giova. |
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145 |
«Oh, questa è una cosa
così insolita ad udirsi» rispose, «che è una grande
manifestazione dell'amore di Dio verso di te; perciò
cerca di aiutarmi qualche volta con le tue preghiere. |
148 |
E cheggioti,
per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a' miei propinqui tu ben mi rinfami. |
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148 |
E ti chiedo, in nome di
quello che tu più desideri (cioè: in nome della
salvezza), che, se mai ti avvenga di passare per la
Toscana, riabiliti la mia fama presso i miei parenti. |
151 |
Tu li vedrai
tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch'a trovar la Diana; |
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151 |
Tu li troverai fra quella
gente sciocca che spera in Talamone, e vi perderà più
illusioni che non a cercare di trovare la Diana; |
154 |
ma più vi
perderanno li ammiragli». |
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154 |
ma più speranze ancora vi
perderanno i comandanti di nave.» |
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Siena nel 1303 acquistò a caro prezzo la località di
Talamone sperando dì farne un buon porto per un suo
sbocco sul Tirreno; ma il luogo malsano, la cattiva
posizione e l'eccessiva lontananza da Siena impedirono
ogni concreta realizzazione. Altro esempio, secondo
Sapìa, della stoltezza dei Senesi, fu la ricerca, lunga
e dispendiosa, ma senza risultato, di un fiume chiamato
Diana, che si diceva scorresse sotto la città.
Il termine ammiragli è da alcuni interpretato come
"appaltatori" addetti ai lavori di ricerca della Diana o
a quelli del porto di Talamone, dalla maggior parte come
"capitani di navi", per indicare coloro che si
illudevano di poter disporre, dopo la costruzione del
porto di Talamone, di una flotta. |
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