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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XVIII° |
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1 |
Posto avea
fine al suo ragionamento
l'alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s'io parea contento; |
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1 |
Il maestro di alti insegnamenti aveva terminato la sua
dimostrazione, e guardava attentamente nei miei occhi
(per vedere) se io apparivo soddisfatto; |
4 |
e io, cui
nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse
lo troppo dimandar ch'io fo li grava'. |
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4 |
ed io, che ero stimolato
ancora da un nuovo desiderio di sapere, non parlavo, ma
dentro di me dicevo: «Forse le numerose domande che
faccio lo infastidiscono». |
7 |
Ma quel
padre verace, che s'accorse
del timido voler che non s'apriva,
parlando, di parlare ardir mi porse. |
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7 |
Ma quel paterno maestro di
verità, che si accorse del mio desiderio che per
timidezza non si manifestava, incominciando a parlare,
mi incitò a farlo a mia volta. |
10 |
Ond' io:
«Maestro, il mio veder s'avviva
sì nel tuo lume, ch'io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva. |
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10 |
Per questo io: «Maestro,
il mio intelletto si illumina a tal punto nella luce
della tua dottrina, che io comprendo chiaramente quanto
il tuo ragionamento proponga o analizzi. |
13 |
Però ti
prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogne buono operare e 'l suo contraro». |
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13 |
Perciò ti prego, o dolce padre caro, di definirmi che
cosa sia quell'amore, al quale fai risalire ogni azione
buona e cattiva». |
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Si impone subito, nell'esordio del canto, del quale
costituirà lo sfondo lirico a testimoniare che la
dottrina dell'amore è un possesso dal Poeta
faticosamente acquisito con l'impegno di tutte le
energie della sua anima, un ricco rapporto sentimentale
fra il maestro e il discepolo, fra la sollecita cura
dell'uno, che chiede alle sue capacità tutto lo sforzo
possibile per comunicare la verità posseduta, e
l'interiore inquietudine dell'altro, che trova nella sua
anima rinnovata dalla penitenza una sempre nuova urgenza
di sapere, ogni volta proponendosi le spiegazioni
ricevute per superarle in una ulteriore richiesta,
finché Virgilio rimanderà l'appagamento totale alla
scienza di Beatrice.
"Questo idillio intellettuale e didattico" (Tarozzi) ha
un sapientissimo profilo esteriore, costruito con una
scelta aggettivazione (alto dottore... padre verace...
dolce padre caro), ma è scandito soprattutto dal
significato degli sguardi in cui pare riflettersi la
reciproca preoccupazione (attento guardava nella mia
vista s'io parea contento) e dal tratto vivo di certe
immagini che bene esprimono la situazione psicologica di
Dante in questo momento, e dalle quali scaturisce una
poesia di trepida intimità che muove dagli affetti
all'intelligenza. Il desiderio della conoscenza è così
diventato una sete che "fruga" nell'animo alla ricerca
della fonte prima del sapere, anche se davanti alla
grandezza di questa ricerca l'animo quasi si ritrae,
restio ad "aprirsi", superando solo in un secondo
momento il suo timore di fronte al lume che avviva.
Viene in tal modo anticipato il procedimento pittorico
che nella parte centrale del canto sostanzierà
visivamente la digressione filosofica-morale. |
16 |
«Drizza»,
disse, «ver' me l'agute luci
de lo 'ntelletto, e fieti manifesto
l'error de' ciechi che si fanno duci. |
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16 |
«Volgi a me» disse «gli
occhi penetranti della tua mente, e, ti apparirà
evidente l'errore di quei ciechi che pretendono di farsi
guide agli altri (sostenendo che ogni amore è sempre
buono) |
19 |
L'animo,
ch'è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto. |
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19 |
L'animo, che
è creato con una disposizione naturale ad amare, è
pronto a muoversi verso ogni cosa piacevole, non appena
è messo in attività da questo piacere. |
22 |
Vostra
apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l'animo ad essa volger face; |
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22 |
La vostra facoltà conoscitiva deriva dalla realtà
esterna l'immagine, e la elabora dentro di voi, così che
fa (volgere l'animo verso quella immagine) |
25 |
e se,
rivolto, inver' di lei si piega,
quel piegare è amor, quell' è natura
che per piacer di novo in voi si lega. |
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25 |
e se l'animo, dopo aver considerato quella immagine, si
inclina verso di lei, quella inclinazione è amore, è una
disposizione naturale che per opera della cosa piacevole
incomincia a vivere concretamente in voi per la prima
volta. |
28 |
Poi, come 'l
foco movesi in altura
per la sua forma ch'è nata a salire
là dove più in sua matera dura, |
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28 |
Poi, come il fuoco tende a
muovi verso l'alto per la sua naturale essenza, che è
fatta salire alla sfera del fuoco dove, essendo nel suo
elemento si conserva più a lungo, |
31 |
così l'animo
preso entra in disire,
ch'è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire. |
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31 |
così l'animo preso da
amore (per cosa piacevole) avverte il desiderio essa,
desiderio che è movimento spirituale, e non trova più
pace finché il possesso della cosa amata non gli dà la
gioia desiderata. |
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Dante accosta un tema che la filosofia del suo tempo
aveva rigorosamente analizzato nella sua origine, nel
suo sviluppo e nelle sue conseguenze, costituendo
l'amore la base di ogni attività dell'uomo, nei rapporti
con se stesso, con gli altri e con Dio, mentre la
poesia, da quella provenzale a quella del dolce stil
novo, aveva trovato uno dei suoi motivi fondamentali
nello studio della psicologia dell'amore, sia pure non
più genericamente inteso, come per Dante in questo
momento, ma specificatamente volto verso la figura della
donna (la cui idealizzazione nello stil novo costituiva
il passaggio ad un sentimento più spirituale, il cui
fine ultimo era Dio). Sarebbe perciò facile determinare
le fonti del Poeta, ma sarebbe anche altrettanto facile
riscontrare la sua discrezione nell'attingervi, il
rigore della sua sintesi, la lucida formulazione
poetica, con la quale egli riesce a superare il pericolo
di una esasperazione nel senso della difficoltà e
dell'oscurità, per l'intraducibilità dei termini
filosofici, in termini poetici e l'impossibilità di
passare dall'uno all'altro linguaggio.
Nel Purgatorio, nota il Fallani, i temi sulla libertà,
sull'Impero, sulla Chiesa, sull'origine dell'anima
umana, sulla formazione del corpo, sui valori dell'arte,
appena enunciati vanno al di là del previsto. Il loro
ordito, tutt'altro che meccanico, è denso di passione,
passione dell'uomo che vuole ripercorrere, momento per
momento, l'aprirsi dell'anima al divino, ritrovando,
tappa per tappa, le forme attraverso le quali si viene
costruendo la nuova vita, e passione del Poeta che vuole
trarre da quelle forme sottili, complesse e sfumate, che
vivono solo in una dimensione interiore, una figurazione
concreta. La lettura attenta di queste terzine permette
di cogliere la loro caratterizzazione in una poesia di
movimento, in un equilibrio, di narrazione e di
rappresentazione, raggiunto con elementi dinamici, più
che cromatici (come sarà di molte parti teologiche del
Paradiso). Il movimento appare fin dall'inizio
intensissimo, teso a raggiungere il suo fine (l'animo è
presto ad amare), con una direzione precisa, la quale
non elimina l'inquieto agitarsi dell'animo (ad ogni cosa
è mobile che piace), che quasi con un sussulto è
tosto... desto al piacere. La tensione spirituale si
traduce così in una tensione narrativa, nella quale quel
primitivo moto in linea orizzontale, dopo essersi
apparentemente attenuato nella lentezza e nella lunga
disposizione dei termini della terzina 22, si solleva
alla fine nella improvvisa nota acuta ad essa volger
face, e si modifica, si incurva naturalmente in due
versi, occupati da tre verbi di moto (rivolto... si
piega... piegare) che illuminano con icastica concisione
la nascita del sentimento più importante dell'animo.
L'esplicito rilievo di questa immaginazione del
movimento diventa ardore esaltante nelle due terzine
seguenti, dove solo un elemento cosmico può reggere il
confronto con l'anelito vitale che pervade l'uomo:
l'altezza della fiamma che sale attraverso i cieli verso
la sfera del fuoco, lungi dall'annullare le dimensioni
di quell'animo preso che entra in disire, le amplia
all'infinito, ribadendone la forza. La dimostrazione
sembra ora convertire ogni precisazione filosofica in un
patetico abbandono al moto spiritate che porta con sé
l'animo (e mai non posa) fino al "gioioso tremore che
ricorda certi candidi inizi stilnovistici di Dante" (Grabher)
del verso fin che la cosa amata il fa gioire. |
34 |
Or ti puote
apparer quant' è nascosa
la veritate a la gente ch'avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa; |
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34 |
Ora ti può essere chiaro
quanto sia nascosta la verità a coloro i quali
sostengono che ogni forma di amore in se stessa è cosa
buona, |
37 |
però che
forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera». |
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37 |
(affermando questo) forse
in base al fatto che la disposizione naturale ad amare
appare sempre buona (poiché tende al bene o a ciò che
appare tale); ma non ogni impronta è buona, benché sia
buona la cera su cui è impressa (cioè: anche se la
disposizione naturale ad amare è buona, non sempre sono
tali l'oggetto e il modo in cui essa vi tende) |
40 |
«Le tue
parole e 'l mio seguace ingegno»,
rispuos' io lui, «m'hanno amor discoverto,
ma ciò m'ha fatto di dubbiar più pregno; |
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40 |
«Le tue parole e la mia
mente che le ha seguite attentamente» gli risposi «mi
hanno chiarito l'essenza dell'amore, ma ciò mi ha
riempito ancora di più di dubbi, |
43 |
ché, s'amore
è di fuori a noi offerto
e l'anima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto». |
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43 |
poiché se l'amore è
determinato da oggetti che stanno al di fuori
dell'anima, e l'anima non può operare in modo diverso
(non va con altro piede: è solo attratta da cose
esterne), non è sua la responsabilità, se procede nel
bene o nel male.» |
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La prima parte della dimostrazione si è conclusa con la
decisa affermazione, da parte di Virgilio, che se può
essere buona la tendenza naturale ad amare, l'amore in
atto può apparire, invece, anche cattivo, perché il bene
a cui si tende può risultare solo apparente: in altri
termini, il giudizio sulla bontà o meno dell'amore non
deve essere dato in base alla disposizione naturale, ma
in base all'oggetto o al fine al quale esso si
indirizza. Ma proprio da qui ha origine il dubbio di
Dante: se l'amore nasce per una cosa che é al di fuori
della creatura e se l'animo tende verso di essa per una
forza naturale, cessa di esistere ogni libertà
nell'animo stesso, e l'uomo, determinato nelle sue
operazioni, non può avere merito, se opera il bene, o
demerito, se opera il male. |
46 |
Ed elli a
me: «Quanto ragion qui vede,
dir ti poss' io; da indi in là t'aspetta
pur a Beatrice, ch'è opra di fede. |
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46 |
Ed egli mi rispose: «Io ti
posso dire quanto la ragione umana riesce a spiegare
intorno a questo problema; affidati solo a Beatrice per
ciò che supera i limiti della ragione, poiché si tratta
di argomento di fede. |
49 |
Ogne forma
sustanzïal, che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta, |
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49 |
Ogni anima, che è distinta
dal corpo pur essendo a quello unita, ha in sé raccolta
la disposizione propria della sua specie, |
52 |
la qual
sanza operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita. |
|
52 |
la quale disposizione non
è avvertita se non quando incomincia ad operare, né si
manifesta se non attraverso i suoi effetti, allo stesso
modo in cui la potenza vitale di una pianta appare nelle
sue fronde verdi. |
55 |
Però, là
onde vegna lo 'ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de' primi appetibili l'affetto, |
|
55 |
Perciò (dal momento che la
virtù specifica dell'anima, cioè la capacità di
conoscere e la disposizione ad amare, è avvertita solo
quando entra in attività) l'uomo non sa da dove provenga
la conoscenza delle nozioni innate, e l'amore dei primi
beni desiderabili, |
58 |
che sono in
voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape. |
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58 |
che è solo in voi uomini,
così come nell'ape c'è la tendenza istintiva a fare il
miele; e questa prima disposizione non è suscettibile di
lode o di biasimo (per il fatto che è innata). |
61 |
Or perché a
questa ogn' altra si raccoglia,
innata v'è la virtù che consiglia,
e de l'assenso de' tener la soglia. |
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61 |
Ora affinché a questo
primo impulso naturale (che è buono in sé perché viene
dalla natura) si accordino tutti gli altri, è innata in
voi la ragione (la virtù che consiglia intorno al bene o
al male), che deve vigilare l'assenso solo alle cose
buone. |
64 |
Quest' è 'l
principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia. |
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64 |
La presenza della ragione
è il fondamento da cui deriva il giudizio del nostro
merito o demerito, secondo che essa accolga e scelga gli
amori buoni e cattivi. |
67 |
Color che
ragionando andaro al fondo,
s'accorser d'esta innata libertate;
però moralità lasciaro al mondo. |
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67 |
I filosofi che con la
ragione investigarono fino in fondo il problema
dell'anima umana, notarono questa libertà innata; per
questo lasciarono in retaggio al mondo la dottrina
morale. |
70 |
Onde, poniam
che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s'accende,
di ritenerlo è in voi la podestate. |
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70 |
Quindi, ammesso che ogni
amore che si accende in voi sorga naturalmente (di
necessitate: indipendentemente dalla vostra volontà), è
anche in noi la facoltà di trattenerlo o no. |
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Inizia, per rispondere al dubbio di Dante, la seconda
patite della disquisizione filosofico-morale di
Virgilio, condotta con la stessa consequenzialità della
prima, ma con una visione ancora più ampia perché estesa
alla definizione del rapporto ragione-tendenze naturali
nell'uomo. L'anima ha in sé la disposizione naturale
(specifica virtù) a conoscere (intelletto delle prime
notizie) e ad amare (de' primi appetibili l'affetto),
della quale disposizione l'uomo prende coscienza solo
dopo che essa entra in azione, e della quale, in quanto
è guidata dalla natura, egli non è responsabile.
Affinché tutte le altre tendenze si conformino all'amore
dei primi beni desiderabili (intellettuali, estetici,
morali), esiste nella creatura la ragione, il cui
compito specifico è quello di accogliere i dati che la
facoltà conoscitiva prende dall'esperienza e, dopo
averli studiati e scelti, di trasmettere il suo ordine
alla volontà, la quale agirà di conseguenza. Solo in
base alla presenza della ragione nasce il principio
della responsabilità, perché è la ragione che sceglie il
bene o il male, decidendo se accogliere o no quell'amore
che nasce spontaneamente nell'uomo. È così dimostrata
l'esistenza del libero arbitrio, sul quale soltanto si
può fondare la costituzione di una dottrina morale: come
fecero appunto i filosofi del mondo greco-romano. |
73 |
La nobile
virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende». |
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73 |
Beatrice (la dottrina teologica) chiama
questa nobile virtù libero arbitrio, e perciò cerca di
ricordartelo, se ella incomincerà a parlartene». |
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La seconda parte della dimostrazione di Virgilio è
aperta e chiusa dal richiamo a Beatrice, che, a prima
vista, potrebbe apparire il facile espediente con il
quale Dante avvisa il lettore che l'ulteriore
approfondimento del problema avverrà in sede teologica.
In realtà esso si dispone come una poetica risoluzione
dell'inquietudine spirituale del Poeta - nel quale i
dubbi e le prospettive di altri problemi si susseguono
con una vastità crescente, davanti alla quale la ragione
si dichiara insufficiente - e dell'anelito ad
abbracciare con uno sguardo d'amore tutto il mondo,
contemplato non nelle sue manifestazioni negative, ma
come una misteriosa creatura ordinata al conseguimento
del suo fine in base a una forza che non è altro che
amore. L'attesa di Beatrice dal canto VI (versi 44-48) è
diventata sempre più impaziente, e Virgilio sempre più
frequentemente rimanda a lei, alla scienza teologica,
l'ultima spiegazione. L'ansia rinnovellatrice del
discepolo e l'umiltà del maestro - l'uno e l'altro con
il pensiero fisso all'immagine della donna del ciel, che
si farà rivelatrice della nuova verità, ma con lo
sguardo pensosamente rivolto al mondo della sapienza
antica, che nel breve arco di una terzina si affaccia
con la stessa calma grave del castello degli «spiriti
magni» (versi 67-69) chiudono in una cornice di
familiare umanità questa parte del canto che certo si
impone come la più rigorosa, dottrinale, calcolata
manifestazione finora apparsa (ravvivata dalle due
illuminanti immagini dei versi 54 e 5859) della
mentalità raziocinante di Dante, e degno preludio di
altre pagine del Purgatorio e Paradiso. È opportuno però
ricordare con il detto che se rimane assente quella
trasognata atmosfera che tante volte scorre nelle pagine
della seconda cantica, si avverte nell'emozione
dell'intelligenza e della cultura, e nel loro slancio
verso la verità, il sapore di una intellettualità
vissuta nella pratica della vita.
"Ripercorrendo con il pensiero l'intero ragionamento, ci
si possono vedere, oltre la solita testura logica e
scolastica, le impronte della personalità morale di
Dante. Talora l'espressione si divincola faticosamente
fra le necessità contrastanti del ritmo e del
ragionamento; tal altra il Poeta riesce a tra. volgere
le idee nella corrente della sua vita, a vederle come
luci della sua vita morale. E allora vien fuori quella
parola misurata e martellata, improntata di una forza
insieme dialettica e morale, e il ragionamento assume un
aspetto virile, che richiama quello delle scene concrete
e delle reazioni morali di Dante o di Virgilio alle
scene dell'Inferno e del Purgatorio." (Momigliano) |
76 |
La luna,
quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com' un secchion che tuttor arda; |
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76 |
La luna, che aveva
tardato. a levarsi fin quasi a mezzanotte, ci faceva
apparire meno numerose le stelle (velandole con la sua
luce), ed era simile ad un secchione di rame tutto
splendente; |
79 |
e correa
contra 'l ciel per quelle strade
che 'l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade. |
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79 |
e compiva il suo corso in
direzione contraria al moto apparente del cielo (contra
'l ciel: procedendo cioè da occidente a oriente) per
quel cammino che il sole riscalda nel periodo in cui chi
abita a Roma lo vede tramontare tra la Sardegna e la
Corsica. |
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La lunga digressione astronomica serve a spiegare che è
quasi la mezzanotte del quinto giorno di viaggio
nell'oltretomba. Sono passati cinque giorni dal
plenilunio, e la luna è in fase calante, in quella
regione del cielo nella quale si trova il sole durante
il solstizio d'inverno, allorché gli abitanti di Roma lo
vedono tramontare tra la Sardegna e la Corsica. Il
Porena osserva però una "distrazione" in questi versi,
perché la luna, quando si trova nell'equinozio di
primavera (Dante immagina di compiere il viaggio nell'al
di là durante il mese di aprile) e subito dopo il
plenilunio, dovrebbe sorgere nell'emisfero australe tra
le nove e le dieci di sera, mentre appare a mezzanotte
in quello boreale.
A sottolineare il superiore stato d'animo di Dante, nel
quale sembrano essersi miracolosamente fissati in questo
momento l'energia analizzatrice di Marco Lombardo e la
forza chiarificatrice della mente di Virgilio, il
paesaggio dà luogo ad una delle scene più suggestive del
secondo regno. Nel silenzio e nel vuoto del quarto
girone, che Dante ha voluto riempire investigando
l'ordine attivo dell'universo, ritorna di nuovo -
secondo l'osservazione del Momigliano, che al tema della
natura ha dedicato alcune delle sue pagine più belle .
la contemplativa attenzione alle vicende del cielo e
degli astri che accompagnano il viaggio e ne accrescono
la grandiosità solitaria. "Il passo che s'arresta con il
calar del sole, quei ragionamenti gravi sul monte
deserto e sotto le stelle, quel sorger di luna così
spazieggiato e sottolineato a mezzo il canto, che dà il
senso della notte giunta al suo colmo, del silenzio
dell'universo, del cielo che corre intorno alla terra
trascinando nella sua corsa gli astri" concorrono a
creare quasi una fantasia lunare, che pausa la tensione
inquieta del canto, prima di immettere nell'affannosa
concitazione di anime, di esempi, di parole che
caratterizza la parte finale, dove il Poeta. prima di
abbandonarsi a un fluido mondo di visioni, ritroverà una
singolare concretezza e solidità di accenti (versi
91-105). |
82 |
E quell'
ombra gentil per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma; |
|
82 |
Quella nobile anima per
cui Pietole (l'antica Andes, patria di Virgilio) è più
famosa della città di Mantova, si era liberata dal peso
di cui l'avevo gravata con le mie domande; |
85 |
per ch'io,
che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com' om che sonnolento vana. |
|
85 |
per la qual cosa io, che
avevo accolto dentro di me il ragionamento chiaro e
semplice di Virgilio intorno alle mie domande, ero nella
stessa situazione di un uomo che nel sonno vaneggia. |
88 |
Ma questa
sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era già volta. |
|
88 |
Ma questa sonnolenza mi
venne tolta all'improvviso da una schiera di anime che
(sopraggiungendo) dietro le nostre spalle già si
dirigeva verso di noi. |
91 |
E quale
Ismeno già vide e Asopo
lungo di sé di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo, |
|
91 |
Quale era la tumultuosa
calca di gente che un tempo videro correre di notte
lungo le loro rive i fiumi Ismeno e Asopo, tutte le
volte che i Tebani avevano bisogno della protezione di
Bacco, |
94 |
cotal per
quel giron suo passo falca,
per quel ch'io vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca. |
|
94 |
tale, per quello che potei
vedere (per l'oscurità), era (la tumultuosa calca) che
avanzava correndo a grandi falcate in quel girone, di
coloro che venivano, i quali erano spronati dalla buona
volontà e dal giusto amore (verso Dio). |
|
Dante, per meglio rappresentare l'affannosa corsa degli
accidiosi, che, per contrappasso, mostrano ora quello
zelo che non ebbero in vita, allude, rifacendosi a
Stazio (Tebaide IX, versi 434 sgg.) e a Virgilio
(Bucoliche V, versi 29 sgg.), ai riti orgiastici che i
Tebani celebravano in onore del dio Bacco lungo le rive
dei fiumi della Beozia. |
97 |
Tosto fur
sovr' a noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo: |
|
97 |
Presto ci
raggiunsero, perché tutta quella grande schiera
procedeva correndo; e due anime davanti alle altre
gridavano piangendo: |
100 |
«Maria corse
con fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagna». |
|
100 |
«Maria si
affrettò ad andare dove abitava Elisabetta: e Cesare,
per soggiogare Lerida, dette un primo colpo a Marsiglia
e poi corse in Spagna» |
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Il primo esempio di sollecitudine si ispira alla storia
ebraico-cristiana e ricorda l'amorosa cura con la quale
la Vergine Maria si recò a visitare Elisabetta allorché
seppe che era in attesa di un figlio (Luca I, 39). Il
secondo, prendendo spunto da Lucano (Farsaglia III,
versi 453 sgg.), presenta la rapidità fulminea con la
quale Cesare agì dopo la battaglia di Farsalo: dopo aver
cinto d'assedio la città di Marsiglia, vi lasciò il suo
luogotenente Bruto e si diresse in Spagna, dove a Lerida
vinse i resti dell'esercito pompeiano. |
103 |
«Ratto,
ratto, che 'l tempo non si perda
per poco amor», gridavan li altri appresso,
«che studio di ben far grazia rinverda». |
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103 |
«Presto, presto, che non si perda il
tempo per fiacco amore» gridavano gli altri dopo,
«affinché la sollecitudine ad espiare ravvivi in noi la
grazia divina.» |
|
Il magistero di Virgilio domina nel canto escludendo
l'incontro con singole anime (la figura dell'abate di
San Zeno è solo un ritratto sbozzato rapidamente, anche
se vivo e potentemente realistico), ma non elimina il
dramma dei penitenti di questa cornice, tanto più
avvertibile, anzi, quanto più nascosto nelle forme della
pena senza altra individuazione, come era già accaduto
per le anime degli ignavi, che il contrappasso richiama
spontaneamente alla memoria. Tale dramma si rivela,
oltre che nelle immagini esteriori e nel pianto che
accompagna una corsa apparentemente senza scopo, nella
tecnica narrativa dove lo stile rapido e sbalzato dei
versi 91-93 assume una cadenza concitata, continuamente
spezzata, che dalla similitudine della furia e della
calca tebana trapassa negli esempi di sollecitudine
(corse con fretta... punse... corse), nell'incitazione
corale, degli accidiosi (ratto, ratto che 'l tempo non
si perda), si dissolve infine con il dissolversi in
lontananza della turba magna. |
106 |
«O gente in
cui fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo, |
|
106 |
«O anime nelle quali lo
zelo ardente ora compensa forse la negligenza e
l'indugio da voi usati per tiepidezza nell'operare il
bene, |
109 |
questi che
vive, e certo i' non vi bugio,
vuole andar sù, pur che 'l sol ne riluca;
però ne dite ond' è presso il pertugio». |
|
109 |
questo che vive ancora, e
certo non vi inganno, vuole salire verso l'alto, non
appena il sole risplenda di nuovo per noi; perciò diteci
da quale parte è più vicino il passaggio (pertugio: per
salire al quinto girone).» |
112 |
Parole furon
queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: «Vieni
di retro a noi, e troverai la buca. |
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112 |
Queste furono le parole
della mia guida; e una di quelle anime disse: «Vieni
dietro a noi, e troverai l'apertura. |
115 |
Noi siam di
voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni. |
|
115 |
Noi siamo così pieni di
ardente desiderio di muoverci, che non possiamo
fermarci; perciò perdonaci, se per caso giudichi come
una scortesia quella che è la nostra giusta pena. |
118 |
Io fui abate
in San Zeno a Verona
sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona. |
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118 |
Io fui abate del monastero
di San Zeno a Verona sotto l'impero del valente
Barbarossa, del quale Milano parla ancora con dolore. |
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Non si hanno notizie precise di questo abate del
monastero veronese di San Zeno; si sa soltanto che al
tempo di Federico Barbarossa (1152-1190) fu abate un
certo Gherardo II, morto nel 1187. Da notare che Dante
definisce il Barbarossa un buon imperatore, in omaggio
alla grandezza della missione imperiale, non certo
diminuita, ma anzi esaltata, dall'inflessibile azione
con cui seppe punire la ribellione di Milano e dei
comuni della Lega Lombarda nel 1162. |
121 |
E tale ha
già l'un piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d'avere avuta possa; |
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121 |
E uno che è già prossimo
alla morte, presto sconterà (nell'al di là) l'offesa
recata a quel monastero, e si dorrà di avere avuto il
potere di farla, |
124 |
perché suo
figlio, mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero». |
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124 |
perché ha messo al posto
del suo abate legittimo suo figlio, difettoso nel corpo,
e peggio ancora (per i suoi vizi) nell'animo, e generato
da un'unione illegittima». |
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Alberto della Scala, signore di Verona, morto nel
settembre 1301 (e quindi, nel '300, con un piè dentro la
fossa), creò abate del monastero di San Zeno un suo
figlio illegittimo, di nome Giuseppe, facendo così non
solo cattivo uso del suo potere, ma permettendo anche
che una persona indegna (verso 125) ricoprisse
illegalmente quella carica. |
127 |
Io non so se
più disse o s'ei si tacque,
tant' era già di là da noi trascorso;
ma questo intesi, e ritener mi piacque. |
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127 |
Io non so se disse altre
cose o se tacque, a tal punto si era già allontanato da
noi; ma questo io ascoltai, e ritenni utile ricordare. |
130 |
E quei che
m'era ad ogne uopo soccorso
disse: «Volgiti qua: vedine due
venir dando a l'accidïa di morso». |
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130 |
E Virgilio che mi era di
aiuto in ogni necessità disse: «Volgiti da questa parte:
guarda due anime che sopraggiungono rimproverando (con
gli esempi) il peccato di accidia». |
133 |
Di retro a
tutti dicean: «Prima fue
morta la gente a cui il mar s'aperse,
che vedesse Iordan le rede sue. |
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133 |
Stando dietro a tutti
dicevano: «Coloro davanti ai quali sì aperse il mare
morirono prima di vedere la Palestina che era stata loro
promessa da Dio; |
136 |
E quella che
l'affanno non sofferse
fino a la fine col figlio d'Anchise,
sé stessa a vita sanza gloria offerse». |
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136 |
e coloro che non
sopportarono con Enea le fatiche del viaggio. fino alla
fine, si abbandonarono ad una vita ingloriosa». |
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Gli esempi di accidia punita sono gridati anch'essi solo
da due anime. Gli Ebrei, dopo essere usciti dall'Egitto
attraverso il miracoloso passaggio del Mar Rosso, si
mostrarono restii ad ubbidire agli ordini di Mosè: per
questo morirono tutti, tranne Caleb e Giosuè, prima di
vedere la Terra Promessa (Deuteronomio.l, 26-36; Numeri
XIV, 1,39).
I compagni di Enea, giunti in Sicilia, si rifiutarono di
continuare con l'eroe il difficile e rischioso viaggio,
e preferirono fermarsi nell'isola (Virgilio Eneide V,
versi 604 sgg.). |
139 |
Poi quando
fuor da noi tanto divise
quell' ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise, |
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139 |
Poi quando quegli spiríti
si furono allontanati da noi tanto da non poter essere
più visti, sorse dentro di me un nuovo pensiero, |
142 |
del qual più
altri nacquero e diversi;
e tanto d'uno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
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142 |
dal quale nacquero
numerosi altri pensieri e diversi fra loro (non in
successione logica); e passai vaneggiando dall'uno
all'altro, tanto che per questo vagare della mente
chiusi gli occhi, |
145 |
e 'l
pensamento in sogno trasmutai. |
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145 |
e il fluido moto dei miei
pensieri si cambiò in sogno. |
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