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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO II° |
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1 |
Già era 'l
sole a l'orizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto; |
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1 |
Il sole aveva già toccato l'orizzonte il cui cerchio
meridiano sovrasta col suo punto più alto (lo zenit)
Gerusalemme; |
4 |
e la notte,
che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia; |
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4 |
e la notte, che ruota
intorno alla terra agli antipodi del sole, sorgeva dal
Gange, nella costellazione della Libra (con le Bilance:
durante l'equinozio di primavera, quando il sole è nella
costellazione dell'Ariete), che le cade di mano quando
(dopo l'equinozio d'autunno: il sole entra allora nella
Libra) supera la durata del giorno (entrando nella
costellazione dello Scorpione); |
7 |
sì che le
bianche e le vermiglie guance,
là dov' i' era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance. |
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7 |
in modo che nel purgatorio
le gote, prima bianche, poi rosse, della leggiadra
Aurora col passare del tempo divenivano gialle. |
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I due poeti sono emersi sul lido del purgatorio poco
prima dell'alba. La prima luce è apparsa loro mentre si
avviavano in silenzio verso la spiaggia bagnata
dall'onda per compiere i riti prescritti dal veglio: un
rito lustrale, inteso a cancellare il passato, il peso
del male e dell'errore, e un rito orientato verso il
futuro, una promessa di umiltà gioiosa e riconoscente.
La descrizione dell'alba (canto I, versi 115-117),
animata da una stilizzata contrapposizione della luce
alle tenebre, si era risolta in una notazione soggettiva
(conobbi), in un grido trionfale, in una panica
professione di fede nella bellezza del creato. Il canto
Il inizia con una precisazione rigorosa, fondata sulla
scienza astronomica, dell'ora nella quale ha inizio,
dopo i due riti di purificazione, il cammino dei due
pellegrini. Il sole è apparso all'orizzonte del
purgatorio, situato agli antipodi dì Gerusalemme. Come
nei versi 112-115 del canto XXXIV dell'Inferno, è messa
anche qui in rilievo l'esatta opposizione, agli estremi
di un segmento che passa per il centro della terra,
della montagna sulla cui cima l'uomo visse innocente e
peccò, e della città in cui Cristo versò il suo sangue
per redimere il genere umano dal peccato. La prima
terzina del canto non contiene dunque, come molti
critici ritengono, una semplice precisazione erudita,
priva di risonanze che oltrepassino il senso letterale,
poiché l'astronomia - come del resto ogni branca del
sapere - non si può mai considerare in Dante nella sua
opaca empiricità, essendo permeata, nella sua stessa
geometrica esattezza, di ragioni morali, di significati
che trovano nella sfera del divino la loro
determinazione ultima.
Nella seconda terzina viene ulteriormente indicata l'ora
della gran secca (cfr. Inferno, canto XXXIV, verso 113)
che occupa l'emisfero boreale, il quale ha come punti
estremi le sorgenti dell'Ebro e la foce del Gange,
distanti fra di loro 180 gradi: tramontando, nel momento
in cui sorge all'orizzonte del purgatorio, il sole a
Gerusalemme, 90 gradi ad oriente di Gerusalemme là dove
il Gange sfocia nell'Oceano Indiano, è mezzanotte.
Dovendo infatti il sole percorrere l'intera rotazione
intorno alla terra (360 gradi, una circonferenza
completa) in 24 ore, l'arco di circonferenza di 90 gradi
sarà percorso in 6 ore (per cui alla mezzanotte alle
foci del Gange corrisponderanno le sei di sera a
Gerusalemme) e quello di 180 gradi in un tempo doppio
(per cui alle 1 6 pomeridiane di Gerusalemme
corrisponderanno lé 6 antimeridiane del purgatorio).
Questa seconda terzina è stata giudicata da taluno (Pistelli)
superflua, ma a questa osservazione si deve obiettare
che ciò che ad una lettura immediata può apparire puro
sfoggio di crudizione, evoca, nella poesia di questo
passo, il senso dell'ordinato svolgersi delle vicende
del cosmo, per cui ad ogni apparizione di astri in un
emisfero della volta celeste risponde un'apparizione
contraria agli antipodi, in un quadro smisurato in
rapporto alle nostre capacità di giudicare e intendere,
ma che trova la sua esatta misura nella mente
ordinatrice di Dio. Per quello che riguarda i
particolari di questa terzina, è arduo non cogliere la
sicura energia che si sprigiona da un'espressione
pregnante come che opposita a lui cerchia, la quale ha
la funzione di conferire, attraverso una determinazione
razionale, un più intenso rilievo al miracolo della
notte personificata (regge in mano le bilance) che
emerge, ai limiti del mondo, dalle acque del mitico
Gange.
Neppure la terzina che trae le conseguenze (sì che ... )
dalle premesse poste nelle due precedenti, ha
generalmente incontrato il favore dei critici. Il
trasformarsi delle guance dell'Aurora da bianche e
vermiglie in rance è, sempre per il Pistelli, "mutamento
non bello e non desiderabile", poiché "l'oro
scintillante del sole non può farci in nessun modo
pensare a un viso ingiallito per vecchiezza mentre è
tutt'insieme e immagine e causa e fonte di forza, di
vita piena e vigorosa. In realtà questa immagine (le
guance della bella Aurora) che riproduce modi della
tradizione letteraria classica, filtrati attraverso
l'esperienza stilnovistica ed adeguati all'andamento
intellettualmente robusto, aderente alle determinazioni
del reale (per troppa etate) proprio della poesia della
Commedia, è valida in virtù della semplicità del
disegno, della stringatezza delle sue determinazioni
dell'ordine logico in cui queste risultano disposte. |
10 |
Noi eravam
lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora. |
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10 |
Ci trovavamo ancora lungo la riva del
mare, come coloro che meditano sul cammino da
percorrere, i quali con l'animo camminano e col corpo
stanno fermi. |
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Nella sua struttura questa terzina riecheggia la musica
stanca dei versi 118-120 del I canto. I due pellegrini
sono soli, lungo la riva di quel mare sul quale videro
compiersi - dopo la lunga, interminabile notte infernale
-il rinnovato, prodigio dell'alba. Pensano al cammino da
percorrere, che sarà duro anch'esso ed aspro, per quanto
illuminato da una Grazia ormai benigna, ed evidente nel
suo fulgore.
Virgilio, il savio gentil, che tutto seppe, non è più
qui la guida autorevole che è stato nell'inferno, perché
"se nell'inferno la sapienza dell'antica poesia poteva
dire tutto, poiché all'inferno è sufficiente la sola
natura umana, ora Virgilio stesso è di fronte a un mondo
totalmente nuovo non più colmato dalla ragione umana:
nel canto XI dell'Inferno la ragione di Virgilio
comprende in sé e domina perfettamente la struttura
infernale. Ora qui no: il paesaggio stesso è, fin dal
primo canto, espressione di un vuoto che non può essere
colmato dalla natura umana, ma invoca un aiuto superiore
che' elevi la natura a una profondità metafisica più
intensa, alla vita di Dio stesso".(Montanari) |
13 |
Ed ecco,
qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra 'l suol marino, |
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13 |
Ed ecco, allo stesso modo in cui mentre si abbassa,
tramontando, sulla superficie del mare, il pianeta Marte
colora di rosso all'avvicinarsi del mattino, a causa dei
densi vapori che lo avvolgono, |
16 |
cotal
m'apparve, s'io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che 'l muover suo nessun volar pareggia |
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16 |
si palesó ai miei occhi, e
tale possa io vederla, nuovamente (allorché, morto, mi
troverò ancora una volta sul lido del purgatorio), una
luce (il volto dell'angelo nocchiero) avanzante sul mare
con tanta celerità, che nessun volo uguaglia il suo
movimento. |
19 |
Dal qual
com' io un poco ebbi ritratto
l'occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto. |
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19 |
Dopo avere
per poco distolto lo sguardo da essa per chiedere
schiarimenti a Virgilio, la rividi divenuta più luminosa
e più grande. |
22 |
Poi d'ogne
lato ad esso m'appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo. |
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22 |
Poi mi apparve ai due lati di essa un bianco di cui non
riuscivo a precisare la forma, e sotto, questo bianco
(sono le ali dell'angelo) un altro bianco si rese
gradatamente manifesto (è la veste dell'angelo). |
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I versi 10-12 hanno segnato come una battuta d'arresto
nella esposizione oggettiva dei fatti, una pausa nello
svolgersi della narrazione, un meditativo ripiegamento
dell'anima, ancora trepidante dopo la dolorosa prova
infernale, ancora incerta sui modi della propria
redenzione, e come soverchiata dall'atmosfera di
miracolo nella quale si trova immersa (le terzine
iniziali del canto hanno ribadito il trionfo della luce
come vittoria implacabile, necessaria - irriducibile
alle sfumature, ai cedimenti, che caratterizzano la
nostra soggettività - legata ad un ritmo che, per
vastità di tempi e spazi, e per rigore, di sviluppi,
paurosamente ci sovrasta). A partire dal verso 13 la
narrazione riprende, la trepidazione si muta in
aspettazione colma di fiducia, il paesaggio, carico sin
qui di presentimenti ma immobile, accoglie in sé un
movimento velocissimo. E' una semplice luce, che
determinata per analogico richiamo all'intonazione
«Scientifica» dell'esordio, in termini astronomici
appare dapprima . corrusca, minacciosa (l'accenno a
Marte, la pesantezza dei vapori che lo avvolgono,
l'energia espressa da rossieggia collocato in fine di
verso sembrano per un attimo suscitare un clima di
minaccia analogo a quello in cui venne celebrata, nella
dignitá profetíca dell'ultimo discorso di Varmi Fucci a
Dante, la travolgente vittoria di Moroello Malaspina),
per poi spogliarsi di ogni terrestre opacità nel lume
del verso 17, e successivamente cingersi, da tre lati,
di un ancora informe candore. Il realismo, in virtù del
quale Dante identificava immediatamente nella prima
cantica l'aspetto essenziale di una forma del mondo
sensibile, di un atteggiamento umano, di un carattere,
cede il posto nel Purgatorio ad una rappresentazione
graduale della realtà, poiché la realtà del purgatorio
non si configura nella definitività di una sentenza già
applicata e pertanto nella stasi, che un solo colpo
d'occhio è in grado di rilevare plasticamente, ma in
quanto itinerario verso la perfezione, in quanto
espletamento di atti simbolici che hanno luogo nel tempo
si rivela progressivamente all'anima che si è resa degna
di percepirla. Questa, gradualità nella manifestazione
del reale - in cui artisticamente si concreta il
processo di graduale conquista del Bene da parte delle
anime purganti - è alla base dello stile della seconda
cantica, che alcuni critici hanno definito "pittorico",
in contrapposizione a quello più rilevato,
caratterizzato come "scultoreo", dell'Inferno. |
25 |
Lo mio
maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto, |
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25 |
Virgilio si trattenne dal parlare, finché i bianchi
apparsi ai lati della luce rosseggiante apparvero essere
ali: ma nel momento in cui fu certo di riconoscere il
nocchiero, |
28 |
gridò: «Fa,
fa che le ginocchia cali.
Ecco l'angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali. |
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28 |
gridò: «Fa in modo di
inginocchiarti: ecco l'angelo di Dio: congiungi le mani:
da ora in poi vedrai simili ministri di Dio. |
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L'enfasi con cui Virgilio esorta Dante ad
inginocchiarsi, non interrompe il processo attraverso il
quale si è progressivamente definita - dal paragone
iniziale con Marte alla individuazione delle ali
nell'indistinto candore che si affiancava ai due lati
del lume - la figura del noccbiero delle anime, ma ne
rappresenta il coronamento naturale e armonico. Osserva
il Montanari che il grido deI poeta latino, più che
esprimere stupore, è grido "di esultanza e quasi di
trionfo poiché Virgilio constata, di aver condotto il
suo discepolo nel sicuro porto della Grazia: perciò ...è
più lieve ed agile che non il corrispondente
comportamento di fronte a Catone, (canto I, versi 49 sgg.);
là dopo il primo, emergere dalla profondità della terra
qualche cosa c'era ancora disticamente duro e quasi
forzato (mi dié di piglio); qui invece dal silenzio
pieno d'aspettativa sboccia un punto luminoso, e
dall'ingrandirsi di questo fino a figura d'angelo, nasce
il grido esultante di Virgilio, alto eppur libero e
lieve, esultante, nella libertà ormai della grazía". |
31 |
Vedi che
sdegna li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l'ali sue, tra liti sì lontani. |
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31 |
Vedi che non si serve di
strumenti umani, in modo da rifiutare i remi e le vele
che non siano le sue ali per percorrere il tragitto tra
spiagge così lontane (dalla foce del Tevere, come sarà
spiegato nei versi 100-105, al lido del purgatorio). |
34 |
Vedi come
l'ha dritte verso 'l cielo,
trattando l'aere con l'etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo». |
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34 |
Vedi come le tiene alte
verso il cielo, penetrando nell'aria con le penne
eterne, le quali non sono sottoposte al cambiamento che
il pelo (o le penne) degli esseri destinati a morire
subisce». |
37 |
Poi, come
più e più verso noi venne
l'uccel divino, più chiaro appariva:
per che l'occhio da presso nol sostenne, |
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37 |
Poi, nell'avvicinarsi a
noi, il santo uccello appariva sempre più luminoso, per
cui, da vicino, lo sguardo non ne sostenne lo splendore, |
40 |
ma chinail
giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva. |
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40 |
ma fui costretto ad
abbassarlo; e quello approdò con una navicella rapida e
priva di peso, tanto che di essa l'acqua non sommergeva
alcuna parte. |
43 |
Da poppa
stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero. |
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43 |
Il celeste nocchiero stava
a poppa, tale che sembrava portare scritta in tutto il
suo aspetto la beatitudine; e più di cento anime
sedevano nella navicella. |
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La figura dell'angelo nocchiero ricorda, per certi
tratti, quella del messo celeste che apre ai due
pellegrini le porte della città di Dite (vedi che sdegna
li argomenti umani esprime lo stesso potere
sovrannaturale che, nell'episodio del IX canto
dell'Inferno, è reso da passava Stige con le piante
asciutte o da con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe
alcun ritegno), distinguendosi tuttavia da quella per un
aspetto meno maestoso, meno imperatorio, e plasticamente
saliente, rria in compenso più spiritualizzato. Il
linguaggio, pur esprimendo, come nel canto IX deII'Inferno,
il potere, da Dio trasmesso ai suoi officiali, di
vincere le leggi della, natura (che l'ali sue tra liti
sì lontani... che non si mutan come mortal pelo), non
mira ad imporre questo potere ad una ostinazione ad esso
estranea (Inferno, canto IX, Versi 76-81 e 91-99), ma a
risolverlo piuttosto nel principio, da cui promana,
avvicinandosi in tal modo, nonostante la struttura
razionale che lo sostiene, al linguaggio infuocato dei
mistici, come risulta da una definizione quale l'uccel
divino, inconcepibile nello stile della morta poesia
infernale. |
46 |
'In exitu
Isräel de Aegypto'
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto. |
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46 |
Tutti insieme, concordi, cantavano
«Quando uscì Israele dall'Egitto» (è l'inizio del Salrno
CXIII) con quello che, in quel salmo, segue. |
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In un passo del Convivio (Il, I, 7)
nel quale sono elencati i quattro sensi che può avere un
componimento di stile "alto" (o "tragico"), ad
esemplificare il quarto di questi sensi (I' "anagogico")
è citato il Salmo CXIII, a proposito del quale viene
espressa l'opinione che, per quanto siano veri i fatti
in esso narrati (l'uscita dei popolo d'Israele
dall'Egitto e la libertà da esso riacquistata), "non
meno è vera quello che spiritualmente (in questo salmo)
s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato,
essa sia fatta santa e libera in sua potestate". |
49 |
Poi fece il
segno lor di santa croce;
ond' ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce. |
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49 |
Poi fece, rivolto a loro,
il segno della santa croce; essi allora si precipitarono
tutti sul lido: ed egli se ne andò con la stessa
velocità con la quale era venuto. |
52 |
La turba che
rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia. |
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52 |
La moltitudine rìmasta
sulla riva sembrava ignara del luogo, e guardava intorno
come colui che sperimenta cose nuove. |
55 |
Da tutte
parti saettava il giorno
lo sol, ch'avea con le saette conte
di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno, |
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55 |
Il sole, che aveva messo
in fuga con le sue frecce precise (saette conte: presso
gli antichi, Apollo, dio dei sole, era arciere
infallibile) dal punto più alto del cielo la
costellazione dei Capricorno (che, distando 90 gradi da
quella dell'Ariete, si trovava allo zenit del meridiano
mentre il sole stava sorgendo), scagliava la sua luce in
tutte le direzioni, |
58 |
quando la
nova gente alzò la fronte
ver' noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte». |
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58 |
allorché la gente allora
arrivata sollevò lo sguardo verso di noi, dicendoci: «Se
la conoscete, indicateci la via per raggiungere il monte
(del purgatorio)». |
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Osserva, in un passo della sua penetrante analisi di
questo canto il Montanari, che, a partire dal verso 13,
il "primo tempo deI motivo proprio di questo canto: è
terminato: dalla attesa quasi spaurita, alla rivelazione
serenatrice. Ora comincia il secondo tempo, riprendendo
in altro tono il tema dell'attesa: la turba che rimase
lì, selvaggia... L'attesa non è più sottolineata
dall'alba, ora, bensì dalla piena luce del sole; e le
prime parole della nova gente allargano ulteriormente il
senso dell'attesa: queste anime non sanno nulla della
via da compiere: Dante e Virgilio, che attendevano chi
li indirizzasse, sanno ora che neppure le anime li
possono indirizzare (52-60). Lo smarrimento, ora,
sarebbe perció più forte se la luce non fosse più
intensa e sicura; ma siamo nella luce, e il vuoto
dell'attesa è un vuoto sereno". Occorre tuttavia
rilevare che la determinazione di questa luce "più
intensa e sicura" è ottenuta anche qui, come nei versi
dell'esordio, attraverso una, rigorosa determinazione
della posizione del sole, (con effetto analogo a quello
dei versi 1-12), e il ritmo impassibile del cosmo
soverchia dì tanto le capacità dell'umano sentire ed
intendere da accentuare lo sbigottimento dei pellegrini
all'inizio del loro viaggio. A ciò contribuisce l'impeto
guerriero impresso all'avvicendarsi degli astri sulla
volta celeste dalla trasposizione in chiave mitologica,
per cui l'ascesa del sole assume il ritmo incalzante di
una caccia (ove il Capricorno è la selvaggina stanata ed
inseguita). |
61 |
E Virgilio
rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti d'esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete. |
|
61 |
E Virgilio rispose: «Voi
immaginate forse che conosciamo questo luogo; ma noi
siamo forestieri al pari dì voi. |
64 |
Dianzi
venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco». |
|
64 |
Siamo giunti poco prima di
voi, attraverso un altro cammino, il quale fu così arduo
da percorrere e duro, che la ascesa del monte ci
sembrerà da ora innanzi cosa piacevole». |
67 |
L'anime, che
si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch'i' era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte. |
|
67 |
Le anime che si resero
conto, per il fatto che respiravo, che ero ancora in
vita, impallidirono per lo stupore. |
70 |
E come a
messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo, |
|
70 |
E come la gente accorre
verso un messaggero apportatore di liete notizie per
esserne messa a conoscenza, e nessuno rifugge dal far
ressa intorno a lui, |
73 |
così al viso
mio s'affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando d'ire a farsi belle. |
|
73 |
così tutte quante quelle
anime fortunate fissarono il loro sguardo su di me,
quasi dimenticando di andare a purificarsi dei loro
peccati. |
|
Il motivo della meraviglia delle anime messe in presenza
di un vivo, accennato sporadicamente nella prima
cantica, è tra quelli destinati a ritornare con maggiore
frequenza nel Purgatorio.
Qui la condizione delle anime è la più vicina a quella
di Dante: come il Poeta, non sono sottratte al tempo, ma
peregrinanti, in un tempo che, se non e più quello
umano, è pur sempre segnato dall'alternarsi di giorni e
notti, di luci e ombre sulle cose e negli animi. Il
tema, della meraviglia dei penitenti rappresenta,
l'avvio al colloquio tra i morti e il vivo, che insieme
ad essi percorre lo stesso cammino, è mosso dalla stessa
fede, ne condivide le ansie. Esso non costituisce, come
nell'Inferno, una barriera al di qua e al di là della
quale il vivo e i morti si trincerano polemicamente nei
limiti delle loro soggettività, ma l'avvio ad una
concordia destinata a perfezionarsi a mano a mano che
gli ostacoli del monte renderanno più fruttuosi gli atti
di penitenza, più luminosamente fervido lo spirito di
carità. |
76 |
Io vidi una
di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante. |
|
76 |
Io vidi una di esse uscire
dalla schiera per abbracciarmi, con affetto così grande,
che mi indusse a fare altrettanto. |
79 |
Ohi ombre
vane, fuor che ne l'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto. |
|
79 |
O ombre inconsistenti,
tranne che nell'appírenza! Tre volte congiunsi le mani
circondandola, e altrettante volte tornai con esse al
mio petto. |
|
L’anima che si fa avanti per abbracciare Dante è quella
di Casella, del quale l’Anonimo Fiorentino scrive: “ Fue
Casella, da Pistoia grandissimo musico e massimamente
nell’arte dello ‘ntonare; e fu molto dimestico
dell’autore, però che in sua giovinezza fece Dante molte
canzone e ballate che questi intonò; e a Dante dilettò
forte l’udirle da lui e massimamente al tempo ch’era
innamorato di Beatrice”. Altri antichi commentatori ne
parlano come di un musicista fiorentino.
Il motivo del triplice, vano abbraccio all’ombra di un
defunto, è stato ispirato al Poeta da un passo
dell’Eneide (VI, versi 700~702): Enea tenta vanamente di
abbracciare l’ombra del padre Anchise, ma questa sfugge
al suo abbraccio. Dante condensa, precisandolo, il
motivo virgiliano, e lo rende più concitato e
drammatico, privandolo delle similitudini che
conferivano all’incontro di Enea con Anchise un tono di
mesta elegia, Se infatti per un pagano la vita dell’al
di là rappresentava una dIminuzione, una pallida eco
della pienezza della vita terrena, per un cristiano è la
vita terrena che appare monca, incompleta, rispetto a
quella dell’oltretomba. Per questo il tema del triplice
abbraccio, desolato e patetico in Virgilio ha in Dante
unicamente la funzione di far risaltare l’affetto che
sopravvive alla morte, l’amicizia di due spiriti che
trova il suo compimento nel mondo della vita eterna. |
82 |
Di
maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l'ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. |
|
82 |
Nel mio aspetto, credo, si
manifestò lo stupore; per questo l'anima sorrise e si
trasse indietro, ed io, seguendola, mi spinsi avanti. |
85 |
Soavemente
disse ch'io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s'arrestasse. |
|
85 |
Con dolcezza mi esortò a
fermarmi: riconobbi allora chi era, e la pregai di
fermarsi un poco per parlare con me. |
88 |
Rispuosemi:
«Così com' io t'amai
nel mortal corpo, così t'amo sciolta:
però m'arresto; ma tu perché vai?». |
|
88 |
Mi rispose: «Così come ti
volli bene mentre era chiusa nel corpo destinato a
morire, così ti voglio bene ora che dal corpo sono
libera: perciò mi fermo; ma tu perché percorri (essendo
vivo) questo cammino?» |
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Casella ci appare remoto da ogni assillo che rende
combattuta, problematica, irreale la ricerca della
felicità sulla terra (soavemente disse ch'io posasse),
ma, al tempo stesso, legato a quanto, sulla terra, è
apparso come un'anticipazione del modo di sentire che è
proprio delle anime del purgatorio: la spiritualità
degli affetti, una, mansuetudine. una dolcezza, che
esprimono un'ardente carità. Il suo affetto per il Poeta
"ora il concreta nel desiderio di sapere come mai Dante
è lì, con le sue spoglie mortali nel regno delle.anime e
«va», come vanno loro che sono ormai sciolte dal corpo
mortale. Non dice dove va; avvolge invece la meta di
suggestiva indeterminatezza, adattissima al luogo, che è
lontananza estrema ed assoluta da ogni determinatezza
terrena".(Chiari) |
91 |
«Casella
mio, per tornar altra volta
là dov' io son, fo io questo vïaggio»,
diss' io; «ma a te com' è tanta ora tolta?». |
|
91 |
«Casella mio, percorro questo
itinerario per essere degno di tornare un'altra volta
(dopo la morte) nel punto in cui adesso mi trovo» dissi;
«ma perché tanto tempo è stato sottratto alla tua
espiazione (perché, essendo morto da tempo, giungi
soltanto adesso alla spiaggia del purgatorio)?». |
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Alla domanda di Casella ma tu perché vai? fa riscontro
quella di Dante ma a te com’è tanta ora tolta? Osserva
in merito il Pistelli: “Nulla potrebbe esprimere
l’interessamento scambievole dei due amici meglio di
questo e due domande rotte, rapide, quasi affannose.
Dove i ma interpongono un altro discorso incominciato e
significano ambedue le volte: ma lasciamo quel che
riguarda me: parlami di te, ché questo solo mi preme”. |
94 |
Ed elli a
me: «Nessun m'è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m'ha negato esto passaggio; |
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94 |
Ed egli: «Non mi viene
fatto nessun torto, se colui (l'angelo nocchiero) che
imbarca le anime che ritiene giusto imbarcare, e lo fa
nel Momento da lui ritenuto giusto, mi ha più volte
negato questo tragitto, |
97 |
ché di
giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace. |
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97 |
poiché la sua
volontà procede da una volontà giusta (quella di Dio):
tuttavia da tre mesi a questa parte (cioè dalla
promulgazione del giubileo ad opera di Bonifacio VIII,
avvenuta nel Natale 1299, alla cui indulgenza poterono
partecipare anche le anime in attesa di essere
traghettate nell'isola del purgatorio) egli ha imbarcato
chiunque ha voluto entrare (nella navicella), senza fare
opposizione. |
100 |
Ond' io,
ch'era ora a la marina vòlto
dove l'acqua di Tevero s'insala,
benignamente fu' da lui ricolto. |
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100 |
Perciò io,
che allora volgevo lo sguardo al mare nel quale l'acqua
del Tevere (che in esso sfocia) diventa salina, fui da
lui benevolmente accolto (nella navicella). |
103 |
A quella
foce ha elli or dritta l'ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala». |
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103 |
Ora egli ha alzato le ali
verso quella foce, poiché là si raccolgono sempre tutte
le anime non destínate all'inferno». |
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Casella non spiega il motivo della lunga attesa alla
quale è stato costretto, alle foci dei Tevere, prima di
essere accolto nel vasello dell'angelo. Per il Montanari
è "inutile, forse, cercare quello che Dante non ha
detto: ma non è, forse, del tutto arbitrario vedere nel
ritardo una espressione della ancora imperfetta volontà
di Casella, ancora pauroso d'incominciare, dalle foci
dei Tevere, il viaggio verso l'ignoto creduto, ma non
sperimentalmente conosciuto. Così interpretato, anche
questo passo si legherebbe al tema generale del viaggio
verso l'ignoto", che, per il critico, caratterizza il
canto. Il Chiari, dal canto suo, ritiene che il Poeta,
lasciando "indeterminata e misteriosa - ma d'altra parte
indicandola come giustissima - la ragione del ritardo,
rende in qualche modo l'idea della impenetrabilità delle
cose spirituali, di questa specie di ineffabilità
dell'indefinito e indefinibile mistero dei rapporti tra
l'anima e Dio". |
106 |
E io: «Se
nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l'amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie, |
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106 |
Ed io: «Se una prescrizione propria del
purgatorio non ti priva del ricordo dei canti d'amore
che solevano placare tutte le mie inquietudini, o della
facoltà di intonarli, |
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L'espressione amoroso canto indica, secondo i più, il
canto di poesie d'amore; ma amoroso può significare
anche «dolce», «caro», tanto più che la canzone intonata
da Casella esalta in forma allegorica la filosofia. |
109 |
di ciò ti
piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!». |
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109 |
voglia tu in tal modo
confortare un poco la mia anima, la quale, insieme al
mio corpo, è tanto stanca per il cammino sin qui
percorso (attraverso l'inferno)!» |
112 |
'Amor che ne
la mente mi ragiona'
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona. |
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112 |
«Amor che ne la mente mi
ragiona» cominciò egli allora a cantare così dolcemente,
che la dolcezza di questo canto echeggia ancora nel mio
animo. |
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« Amor che ne la mente mi ragiona » e il verso con cui
inizia la canzone commentata nel III libro del Convivio.
Dante interpreta questa canzone allegoricamente,
cercando di dimostrare che le lodi della donna amata
sono lodi rivolte alla filosofia e conclude il suo
commento esortando gli uomini a seguire gli insegnamenti
dei filosofi. Ma, prescindendo da questa interpretazione
dottrinale, il componimento, che in più luoghi si
risolve in melodia purissima, riecheggia motivi e forme
di alcuni fra quelli inclusi nella Vita Nova. E' - nota
il Chiari - la canzone del gaudioso rapimento d'amore,
così smemorante che l'intelletto sovr'esso disvia... ed
è la canzone dell'assoluta impossibilità di esprimere a
parole quel che l'anima sente". Per quanto riguarda il
senso dell'intero episodio di Casella risultano di
grande interesse le seguenti osservazioni del Montanari:
"Il mito virgiliano dell'incontro di Enea con il padre
defunto significava l'illusione del ricordo che ti fa
presente per un attimo lo scomparso, con lo stesso senso
che ne avevi nella presenza viva, e poi d'un tratto
nell'attimo stesso ti abbandona, rendendo più desolato
il sentimento dell'irrimediabile assenza. Di tale umana
esperienza non è certo ignaro Dante: ma al mito
dell'illusione subito delusa si aggiunge qui un
soprassenso, senza distruggere il primo: l'amicizia più
alta ed eterna... non si appaga più dei sensi corporei:
e pure, nello sbalzo dal temporale all'eterno, dal
corporeo allo spirituale, soffre un distacco dolente...
L'antico tema della consolazione dell'amicizia,
rivissuto prima nell'atmosfera dell'amore cortese,
rivissuto poi nel clima della solenne lode della
filosofia sentita come suprema vetta della grandezza
umana, risuona ora come umana consolazione in cui sono
fuse insieme musica, amicizia, filosofia..." |
115 |
Lo mio
maestro e io e quella gente
ch'eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente. |
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115 |
Virgilio e io e le anime
che erano insieme con lui apparivamo così felici, come
se a nessuno di noi un altro pensiero occupasse la
mente. |
118 |
Noi eravam
tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? |
|
118 |
Noi tenevamo tutti lo
sguardo fisso su di lui e la nostra attenzione era
interamente rivolta al suo canto; ed ecco apparire il
venerando vecchio (Catone), il quale gridò: «Cosa
significa questo, anime pigre? |
121 |
qual
negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto». |
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121 |
che senso ha questa
negligenza, questo indugio? Affrettatevi verso il monte
per liberarvi della scorza peccaminosa che non consente
che Dio vi appaia». |
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Alla stasi delle anime, ancora avvinte, attraverso lo
spirituale legame della musica, a quanto di parzialmente
puro e felice in loro riaffiora del passato, si
contrappone drammaticamente l'imperativo di Catone.
Essendo lo stato contemplativo prerogativa dei beati (ai
quali soltanto Dio è manifesto in tutto il suo
splendore), occorre che esse rinuncino a guardare nel
passato le oasi di bene in cui credettero di intravedere
prefigurata la felicità eterna. Il loro sguardo deve
tendersi invece verso il futuro, non sfuggire al ricordo
delle colpe, ma superarlo espiandole (correte al monte).
"Casella e Catone sono come i due temi fondamentali del
canto Il del Purgatorio: quello dello stupefatto
smarrimento, dell'incertezza un po' lenta e nebbiosa, e
l'altro della indiscutibile ed assoluta sicurezza, della
certezza salda ed infallibile. E se non temessimo di
cadere in un simbolismo alquanto meccanico e di effetto,
non esiteremmo ad aggiungere che Casella e Catone
rappresentano ora i due aspetti fondamentali dello stato
d'animo di Dante pellegrino nel nuovo regno: la certezza
di realizzare in sé presto l'assoluta libertà, e lo
smarrimento stupefatto e meravigliato che gliel'appanna
e gliel'annebbia." (Marti) |
124 |
Come quando,
cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l'usato orgoglio, |
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124 |
Con la stessa rapidità con
la quale i colombi, adunati per il pasto, tranquilli,
senza ostentare la solita baldanza (a causa della quale,
impettiti, gonfiano il collo), mentre sono intenti a
beccare la biada o il loglio, |
127 |
se cosa
appare ond' elli abbian paura,
subitamente lasciano star l'esca,
perch' assaliti son da maggior cura; |
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127 |
se appare alcunché di cui
abbiano timore, all'improvviso si distolgono dal cibo,
perché sono sotto l'assillo di una preoccupazione più
grande, |
130 |
così vid' io
quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa,
com' om che va, né sa dove rïesca; |
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130 |
vidi quella schiera da
poco arrivata distogliere l'attenzione dal canto (di
Casella), ed avviarsi verso il pendio (del monte), come
chi si avvia senza sapere dove vada a finire |
133 |
né la nostra
partita fu men tosta. |
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133 |
né la nostra partenza fu
meno veloce. |
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Osserva finemente il Chiari che, nonostante il brusco
richiamo di Catone alla realtà, il paragone dei colombi
"ci riporta alla quiete offerta dalla amorosa pastura
del canto di Casella, e bene armonizza con tutta
l'immagine di dolce mitezza con la quale è entrata
nell'animo nostro questa prima delle molte schiere di
anime che incontreremo lungo la montagna del purgatorio;
ed è immagine del nuovo mondo, ove deve sparire del
tutto ogni turbamento del mondo terreno". A questa la
prima delle similitudini che illustrano la condizione
delle anime dei purgatorio, caratterizzata, come ha ben
veduto il De Sanctis, dall'obliarsi della coscienza
individuale "in uno stesso spirito di carità e d'amore.
Nell'Inferno vi sono grandi individualità, ma non vi
sono cori; l'odio è solitario: nel Purgatorio non ci ha
grandi individualità, ma invece vi son cori: l'amore è
simpatia, dualità, un'anima che cerca un'altra anima".
Per questo numerose similitudini della seconda cantica
riguardano gruppi di anime, anziché anime singole,
propongono alla nostra meditazione il tema dell'umiltà e
dell'armonia, anziché quello dell'affermazione
orgogliosa di sé che introduce nell'universo il seme
della ribellione e del disordine. |
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