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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XV° |
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1 |
Quanto tra
l'ultimar de l'ora terza
e 'l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza, |
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1 |
Quanto percorso compie il sole che (oscillando nel suo
moto apparente fra i due tropici) pare sempre giocare
come un fanciullo, tra l'inizio del giorno e la fine
dell'ora terza, |
4 |
tanto pareva
già inver' la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era. |
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4 |
altrettanta parte del suo
cammino, sembrava ormai gli fosse rimasta per arrivare
al tramonto; nel purgatorio era il vespero, e in Italia
era mezzanotte. |
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Tenendo presente la divisione canonica delle ore del
giorno in ora prima, terza, sesta, nona, partendo dalle
sei del mattino; Dante intende spiegare che la quantità
di cammino percorsa dal sole fra le sei e le nove è
uguale a quella che deve percorrere per tramontare:
mancano cioè tre ore, e infatti nel purgatorio inizia il
vespero (tra le quindici e le diciotto), che precede la
sera; agli antipodi, cioè a Gerusalemme, sono le tre
antimeridiane, e in Italia, dove il Poeta immagina di
scrivere, e che si trova a 45 gradi di longitudine
occidentale da Gerusalemme, è mezzanotte.
Il paragone tra la luce e il fanciullo che scherza è
parso privo, di risonanze liriche alla maggior parte
degli interpreti. Anche da un punto di vista logico, il
significato del perpetuo scherzare della luce non
risulta, a una prima lettura, evidente. La più
persuasiva spiegazione è forse quella fornita dal Porena,
per il quale critico la similitudine del verso 3
"raffronta... la condotta incostante del fanciullo, che
sempre vuole e disvuole, fa, e disfà, con quel continuo.
e costantemente incostante oscillar del sole, nella
vicenda delle stagioni, fra un tropico e l'altro". Ove
si accetti questa esegesi, il quadro con cui il canto si
apre perde quel che di angusto e di irrisorio, che una
considerazione immediata del verso 3 è suscettibile di
conferirgli (anche un critico smaliziato come il Marti
si domanda, facendo eco a chi, come P. Venturi, ha
definito questo verso "miserabile similitudine", o, come
il Momigliano, l'ha attribuito ad una "infelice
imposizione della rima": "quale mai scherzo
fanciullesco, in questo uguale, solenne ed eterno
muoversi della sfera del sole?"), per acquistare
proporzioni di cosmica vastità.
Ma la similitudine, indipendentemente dalla sua
interpretazione in termini astronomici,.. si giustifica
sul piano della poesia soprattutto, nella misura in cui
prelude alla tematica delle manifestazioni della luce
che sarà propria del canto. La luce infatti apparirà in
questa, pagina della poesia del Purgatorio, in costante,
quasi imprevedibile movimento, per cui il nesso
analogico con lo scherzare del fanciullo risulta,
fecondo, ove si ponga mente, oltre, che al motivo del
movimento, antiche a quello della impalpabilità ed
inafferrabilità dell'elemento luminoso, cui la mancanza
di peso può conferire, agli occhi di un poeta, il
privilegio di una imperitura giovinezza. In particolare,
il verso 3 anticipa il versò 18, ove -o "scherzare" si
definisce fisicamente come "saltare", rimbalzare
all'opposta parte, quasi per un inspiegabile, libero
capriccio (per quanto determinabile entro una
formulazione astratta: qui e nel Paradiso i fenomeni
luminosi, assunti a suggerire gli aspetti di più ardua
traduzione in termini umani della verità, si definiscono
in forme di estremo rigore razionale). |
7 |
E i raggi ne
ferien per mezzo 'l naso,
perché per noi girato era sì 'l monte,
che già dritti andavamo inver' l'occaso, |
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7 |
E i raggi del sole ci
colpivano in pieno viso, perché avevamo percorso (da
oriente ad occidente) tanta parte del monte, che ora
camminavamo verso occidente in linea retta, |
10 |
quand' io
senti' a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m'eran le cose non conte; |
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10 |
allorché sentii i miei
occhi abbassarsi di fronte alla luminosità (dell'angelo)
molto più di prima (davanti alla luce del sole), e
questa cosa nuova mi era motivo di stupore: |
13 |
ond' io
levai le mani inver' la cima
de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,
che del soverchio visibile lima. |
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13 |
per cui portai le mani all'altezza dei miei occhi, e mi
riparai dal sole, con un gesto che attenua l'eccesso
della luce. |
16 |
Come quando
da l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio |
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16 |
Come quando un raggio di
sole (che è stato riflesso) rimbalza dalI'acqua o dallo
specchio, nella parte opposta (a quella da cui era
venuto), risalendo in base alla stessa legge |
19 |
a quel che
scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte; |
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19 |
per cui era
disceso, e si allontana dalla perpendicolare di uno
spazio uguale a quello di cui si era allontanato
cadendo, secondo quanto dimostrano l'esperienza e la
scienza, |
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Dante allude a un noto principio di Euclide: nel
fenomeno della riflessione sopra una superficie piana,
l'angolo di riflessione e quello di incidenza sono
uguali e si trovano ai lati opposti della perpendicolare
a quella superficie. |
22 |
così mi
parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta. |
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22 |
con la stessa intensità di quel raggìo
mi sembrò di essere colpito da una luce riflessa che si
trovava dinanzi a me; per la qual cosa i miei occhi
furono pronti a sottrarvisi. |
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Dante ha provato la stessa impressione che dà un raggio
riflesso improvvisamente e violentemente. Il suo è
soltanto un paragone (così mi parve), perché in realtà
la luce dell'angelo lo colpisce direttamente.
Il fenomeno della luce riflessa si ripropone,
umanizzato, in una terzina del Paradiso ( canto I, versi
49-51) : e sì come secondo raggio suole uscir del primo
e risalire in suso, pur come pellegrin che tornar
vuole..., dove l'esattezza della costatazione
scientifica (uscir del primo e risalire in suso è
concettualmente più perspicuo, ma poeticamente meno
intenso di salta lo raggio all'opposita parte) si
trasfigura nel sentimento del pellegrino lontano dalla
terra dei suoi affetti. |
25 |
«Che è quel,
dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?». |
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25 |
«Che luce è, dolce Virgilio, quella da cui non posso
difendere la vista in modo da poterla sostenere» dissi,
«e che sembra avanzare verso di noi?» |
28 |
«Non ti
maravigliar s'ancor t'abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar ch'om saglia. |
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28 |
«Non ti stupire, se gli
angeli ti abbagliano ancora (non essendo completa la tua
purificazione)» mi rispose: «è un messaggero celeste che
giunge ad invitare all'ascesa. |
31 |
Tosto sarà
ch'a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose». |
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31 |
Presto accadrà che non ti
sarà più faticosa la vista di queste cose, ma ti sarà
piacevole nella misura in cui le tue facoltà naturali ti
permetteranno di sentire.» |
34 |
Poi giunti
fummo a l'angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto». |
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34 |
Dopo che giungemmo davanti
all'angelo benedetto, egli con voce lieta ci disse:
«Procedete da questa parte», per una scala meno ripida
delle altre due. |
37 |
Noi montavam,
già partiti di linci,
e 'Beati misericordes!' fue
cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'. |
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37 |
Noi salivamo, dopo esserci
già allontanati da lì, quando dietro a noi l'angelo
cantò: «Beati i misericordiosi!» e «Godi tu che vinci
(il peccato)!» |
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Nel secondo girone, quello degli invidiosi, viene
cantata la quinta beatitudine del discorso della
montagna (Matteo V. 7), contrapponendo all'invidia la
misericordia; l'espressione Godi tu che vinci è da
alcuni commentatori rìferita alla seconda parte della
beatitudine ("perché otterranno misericordia"), da
altri, e più giustamente, alle parole conclusive di
tutte le beatitudini: "rallegratevi ed esultate, perché
grande è la vostra ricompensa nei cieIi" (Matteo V, 12). |
40 |
Lo mio
maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue; |
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40 |
Il mio maestro, ed io,
soli, salivamo entrambi; ed io pensai, mentre continuavo
a camminare, di trarre profitto mediante le sue parole; |
43 |
e dirizza'mi
a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e 'divieto' e 'consorte' menzionando?». |
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43 |
allora mi rivolsi a lui
con questa domanda: «Che cosa volle dire l'anima del
romagnolo Guido del Duca, accennando a "divieto" e
"partecipazione"?» |
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Dante si riferisce al verso 87 del canto precedente,
dove Guido del Duca aveva ricordato l'amore degli uominì
per i beni terreni. |
46 |
Per ch'elli
a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s'ammiri
se ne riprende perché men si piagna. |
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46 |
Per cui egli: «Ora conosce
gli effetti dannosi del suo peccato principale (di sua
maggior magagna, cioè l'invidia); e perciò non sia
motivo di meraviglia se egli rimprovera gli uomini
affinché ne possano piangere dì meno le conseguenze. |
49 |
Perché
s'appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a' sospiri. |
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49 |
L'invidia vi fa sospirare,
perché i vostri desideri si rivolgono verso i beni
terreni dove per il fatto che altri vi parteciparlo
diminuisce la parte che tocca a ciascuno. |
52 |
Ma se l'amor
de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema; |
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52 |
Ma se l'amore dei beni
spirituali piegasse verso l'alto i vostri desideri, nel
vostro cuore non vi sarebbe quel timore (di essere
privati dagli altri di una parte dei vostri beni
materiali), |
55 |
ché, per
quanti si dice più lì 'nostro',
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro». |
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55 |
poiché, in paradiso,
quanto più numerosi sono coloro che posseggono il bene
comune (per quanti si dice più... "nostro": quanto più
numerosi sono coloro che dicono "nostro"), tanta più
grande è la quantità di bene che possiede ciascuno, e
tanto più intenso è l'amore che arde in quella
comunità». |
58 |
«Io son
d'esser contento più digiuno»,
diss' io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno. |
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58 |
«Sono più insoddisfatto»
risposi, «di quanto sarei se prima avessi taciuto,
perché la mia mente ha ora dubbi più grandi. |
61 |
Com' esser
puote ch'un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?». |
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61 |
Come può avvenire che un
bene distribuito fra più possessori li renda possessori
di una quantità più grande, che non se viene diviso fra
pochi?» |
64 |
Ed elli a
me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi. |
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64 |
Ed egli mi rispose: «Per
il fatto che tu continui a tenere rivolta la mente solo
ai beni terreni, raccogli solo tenebre dalla luce di
verità delle mie parole. |
67 |
Quello
infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com' a lucido corpo raggio vene. |
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67 |
Dio, quel bene infinito ed
indicibile che è nei cieli, si concede prontamente
all'anima che arde d'amore così come un raggio di sole
corre verso un corpo capace di rifletterlo. |
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In questa terzina il pensiero, serbando intatto il suo
arduo rigore, si traduce in accenti poetici che - per il
fatto di esprimere verità estremamente complesse - nulla
perdono della loro limpidità e del loro musicale fluire.
La successione, nei due ultimi versi della terzina, dei
verbi è, corre, vene adombra il mistero della carità. II
Dio cristiano. non diversamente da quello di Aristotile,
si definisce come Essere, ma, a differenza di quello
teorizzato dal maestro di color che sanno, è un Essere
che non rimane chiuso in una perfezione remota dal mondo
e dall'agire nel mondo. L'essere del Dio cristiano è
pienezza di amore, amore che trabocca in un atto di
creazione e in un atto di redenzione, di sacrificio
volto alla salvezza degli esseri creati. L'inclinarsi
del Creatore verso le sue creature, il dono della sua
sollecitudine - che nessuna considerazione razionale
dimostra necessaria, ed è miracolo, Grazia - accordato
alla fallibilità degli uomini, è espresso, nel secondo
emistichio del verso 68, da un verbo (corre) che
logicamente si contrappone all'è del primo emistichio.
L'impeto di carità che si concreta nell'urgenza di
questo "correre" si colora, nel vene del verso
successivo, di una spiritualità intima e raccolta,
scevra ormai del trepidare dell'ansia, irriducibile ad
un agire materiale, pacificata in un presagio di fede
(la reminiscenza scritturale è, nella scelta di questo
termine, evidente). |
70 |
Tanto si dà
quanto trova d'ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr' essa l'etterno valore. |
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70 |
Tanto più si concede
quanto più grande è l'ardore (dell'anima verso di Lui);
così che, nella misura in cui l'amore si dispiega
nell'anima, cresce sopra di essa la luce divina. |
73 |
E quanta
gente più là sù s'intende,
più v'è da bene amare, e più vi s'ama,
e come specchio l'uno a l'altro rende. |
|
73 |
E quanto più numerosi sono
coloro che in paradiso si amano, tanto più si crea la
possibilità di un santo amore, e tanto più si amano tra
di loro, e l'uno riflette sull'altro la luce ricevuta da
Dio come uno specchio. |
76 |
E se la mia
ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun' altra brama. |
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76 |
E se il mio ragionamento
non ti soddisfa vedrai Beatrice, ed ella scioglierà
completamente questo e qualsiasi altro dubbio. |
79 |
Procaccia
pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente». |
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79 |
Cerca in ogni modo che ti
siano presto cancellati, come lo sono già stati i primi
due, i cinque segni. che si rimarginano solo con il
dolore del pentimento». |
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In questo secondo discorso di Virgilio il tema della
fertilità inesauribile dei beni spirituali, affrontato
con una certa secchezza - fino al lirico lievitare di
esso nel verso 57 - nella prima spiegazione impartita al
discepolo, emerge ad una pienezza di canto; entro una
prospettiva di verità che ormai hanno trasceso, nel
fervore dell'ascesi intellettuale, il motivo occasionale
che ha dato l'avvio al dialogo (che volse dir lo sputo
di Romagna...). Osserva in proposito il Marti: "La
poetica sensazione di mobile luce e di ardore, con la
quale felicemente si chiudono le prime terzine
virgiliane (più di caritate arde in quel chiostro), ora
diventa luce d'intelletto e calore di affetto, che tutto
illuminano e riscaldano; da quel di vera luce tenebre
dispicchi, al paragone com'a lucido corpo raggio vene;
da quel tanto si dà quanto trova d'ardore all'altro
paragone e come specchio d'uno all'altro rende; fino
all'esortazione procaccia pur che tosto sieno spente...
le cinque piaghe, dove le cinque piaghe (le cinque P,
che ancor segnano la fronte di Dante) sono anch'esse
viste in funzione di sensazione luminosa (spente). E
parallelamente a questo accendersi di fantasia, la
generica impersonalità della spera suprema e dei suoi
abitatori (per quanti si dice più lì "nostró') che è nei
versi precedenti, si tramuta ora nella concretezza
poetica di un infinito ed ineffabil beffe che corre ad
amore, che si dà quanto trova d'ardore; il cui valore
cresce quantunque carità si stende; e nella concretezza
della gente che là su s'intende, ama cioè in reciprocità
d'amore". |
82 |
Com' io
voleva dicer 'Tu m'appaghe',
vidimi giunto in su l'altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe. |
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82 |
Nel momento in cui volevo
dire "Mi hai persuaso", mi accorsi di essere giunto
nell'altro girone, per cui il desiderio di vedere mi
fece tacere. |
85 |
Ivi mi parve
in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone; |
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85 |
Lì mi parve di essere
improvvisamente rapito in estasi, e di vedere numerose
persone raccolte in un tempio; |
88 |
e una donna,
in su l'entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto? |
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88 |
e (mi parve di vedere) una
donna, sulla soglia che con il tenero atteggiamento di
una madre diceva: «Figlio mio, perché hai agito tosi
verso di noi? |
91 |
Ecco,
dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario. |
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91 |
Ecco che tuo padre ed io,
addolorati, ti stavamo cercando ». E non appena la voce
a questo punto tacque: la prima visione scomparve. |
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II primo esempio di mansuetudine (la virtù contraria
all'iracondia) è tratto da un passo del vangelo di Luca
(Il, 41-50); in esso si narra che Gesù, ancora
fanciullo, invece di seguire i genitori che da
Gerusalemme ritornavano a Nazareth, si recò nel tempio a
discutere coi dottori, e lì fu ritrovato, dopo tre
giorni, da Maria e Giuseppe e rimproverato dalla madre.
Nota il Porena come le parole della Vergine, che nel
testo evangelico "si presterebbero anche a una
intonazione alquanto sostenuta di sia pur calma
severità", esprimono qui soltanto l'accorato affetto di
una madre per il proprio figlio. Dante mitiga e sfuma di
trepidazione il rimprovero evangelico, qualificando il
vocativo del testo del passo di Luca ("figlio") con il
possessivo mio e dando ad esso una forma più intima e
familiare (figliuol). Della Vergine, in questa visione
intesa a proporre un esempio di mansuetudine, è posto in
luce il solo lato umano (una donna... con atto dolce di
madre), il dolore che in esso è contenuto, e
l'accettazione di questo dolore. Tutto questo risulta.
oltre che dai singoli particolari, dal respiro stesso di
questa terzina, dalla sospesa cadenza dei perìodi. Ogni
particolare appare sfumato in questa visione; ogni
circostanza più precisa di tempi o luoghi è abolita,
ogni forma di determinazione - in quanto superflua al
proporsi universale dell'esempìo - è volutamente
ignorata. La cornice in cui la scena si inquadra è,
genericamente, un tempio, lo sfondo di essa è
rappresentato da una folla indifferenziata, più persone,
in primo piano spicca una donna, il cui sentire ed
atteggiarsi è riportato a quanto di più intimo,
nell'essere della donna, è dato ritrovare, a ciò che
quest'essere più da vicino ed esaurientemente definisce:
il sentimento materno. Ma dove l'indeterminatezza
raggiunge il suo grado più alto, riuscendo al contempo
ad una cortissima intensità di espressione, è nel così,
rilevato dalla cesura che lo isola fortemente, del verso
90. Questo semplice avverbio esprime una ricchezza ed
una combattuta complessità di sentimenti risolti in
perdono, in tenerezza permeata di mestizia, in gioia che
partecipa nel profondo della positività del dolore. |
94 |
Indi
m'apparve un'altra con quell' acque
giù per le gote che 'l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque, |
|
94 |
Poi mi apparve un'altra
donna con il volto rigato dalle lagrime che il dolore
suscita quando (nell'animo) nasce un grande sdegno verso
gli altri, |
97 |
e dir: «Se
tu se' sire de la villa
del cui nome ne' dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla, |
|
97 |
e diceva: «Se
tu sei signore della città per il cui nome gli dei
gareggiarono accanitamente tra loro, e dalla quale
risplende nel mondo ogni scienza, |
100 |
vendica te
di quelle braccia ardite
ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E 'l segnor mi parea, benigno e mite, |
|
100 |
vendicati, o
Pisistrato, di quelle braccia che osarono stringere
nostra figlia». E vedevo il sovrano, benevolo e mite, |
103 |
risponder
lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?». |
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103 |
risponderle con volto
atteggiato a moderazione: «Che cosa faremo a chi
desidera il nostro male, se condanniamo chi ci ama?» |
|
Dante ricorda un episodio narrato dallo storico romano
Valerio Massimo (Facta et dicta memorabilia V, 1, 2) a
proposito di Pisistrato, tiranno di Atene nel VI secolo
a. C. Un giovane, innamorato della figlia di Pisistrato,
osò abbracciarla in pubblico, suscitando lo sdegno della
moglie del tiranno, che ne chiese la punizione.
Il nome Atene fu dato alla città dopo una gara tra
Nettuno e Pallade Atena vinta dalla dea (cfr. Ovidio -
Metamorfosi VI, versi 70 sgg.) ; la grandezza della
città, nel campo delle arti e delle scienze, da Dante
ricordata nel verso 99, è esaltata da scrittori latini e
medievali.
La seconda visione è priva del sentimento di dolore,
riscattato nell'intimo dalla fede, che caratterizza i
due episodi tra i quali è inserita. Desunto dalla
tradizione classica, più che un esempio di mansuetudine,
lo diremmo un esempio di equanimità, di serena
valutazione delle cose. La compostezza classica di
questo secondo esempio di mansuetudine si traduce in una
calcolata bipartizione di esso: al modello del male,
reso plasticamente nel pianto della moglie, fa riscontro
il viso temperato del benigno e mite Pisistrato. Anche
qui, non meno che nel quadro precedente, ogni insorgenza
di acuminato realismo appare smussata, ma, mentre nella
scena che aveva per protagonista la Vergine la
traduzione dell'episodio in un clima fermo di favola
conferiva ad esso una sostanziale drammaticità, qui la
narrazione si distende, piana, nelle cadenze di un ritmo
misurato: i singoli termitai non si isolano in una serie
di attonite o dolenti sospensioni, ma sapientemente si
dispongono nel fluire di un pensiero generico ed in
certa misura ad essi preordinato. |
106 |
Poi vidi
genti accese in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!». |
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106 |
Poi vidi un gruppo di
persone accecate dall'ira che lapidavano un giovanetto,
gridandosi forte, reciprocamente: «Uccidi, uccidí!» |
109 |
E lui vedea
chinarsi, per la morte
che l'aggravava già, inver' la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte, |
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109 |
E lo vedevo accasciarsi,
per la morte che già gli era sopra a terra, ma teneva
gli occhi sempre aperti verso il cielo, |
112 |
orando a
l'alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a' suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra. |
|
112 |
pregando Dio, in tanta
sofferenza, di perdonare ai suoi persecutori, con quell'atteggiamento
che suscita la pietà. |
|
La visione del terzo esempio rappresenta la lapidazione
di Santo Stefano; il primo martire della fede, ucciso
dai Giudei. (Atti degli Apostoli VII, 54-60).
La figura di Santo Stefano, contro lo sfondo di una
umanità imbestiata, ebbra di sanguinario furore,
vorticante, con la cieca irrevocabilità di un fenomeno
naturale, verso Il supplizio di un innocente, si sublima
in una dimensione di valori che trascendono il mondo e
dal mondo non sono compresi: la dimensione del perdono,
del sacrificio che redime anche coloro che lo deridono,
della carità incommensurabile in rapporto ai criteri
della umana giustizia. Il "giusto mezzo" proposto
dall'esempio di Pisistrato, principio regolatore di
tutte le manifestazioni della civiltà classica, ideale
risolventesi in forme chiuse ed armoniche, è qui
trasceso in un'ansia d'infinito, in un verticale
insorgere dello spirito nel momento in cui l'elemento
fragile che in terra lo esprime sta per dissolversi.
Penetrante e sicura è l'analisi che il Porena ha fatto
di questo episodio: "Notate nella prima terzina: il
pietoso contrasto fra quel giovinetto, idea e parola
tenera, e quella calca di concetti forti e violenti da
cui è circondato; genti, accese, foco, ira, pietre;
ancider, forte, gridando, martira. Nella seconda
terzina, un altro. meraviglioso contrasto, nella figura
del giovinetto, tra la materia, che ubbidisce alla
necessità della legge fisica, e, prossima alla morte,
diviene peso bruto che si aggrava a terra; e l'anima,
sempre desta e alacre nell'occhio sollevato e spalancato
alla visione del cielo: E lui vedea chinarsi, per la
morte che l'aggravava già, inver la terra (verso
portentoso di pesantezza plumbea) ma degli occhi facea
sempre al ciel porte: è addirittura una irruzione di
cielo in quel corpo pesto e sanguinoso che sta per
tornar terra, alla terra. Finalmente, nell'ultima
terzina, ecco il motivo essenziale: la esemplare
mansuetudine, in contrapposto al peccato dell'ira". |
115 |
Quando
l'anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori. |
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115 |
Quando la mia anima
ritornò a percepire le cose che fuori di essa hanno una
loro realtà, compresi che le visioni erano irreali
(errori: cioè non esistenti di per sé), ma
effettivamente viste. |
118 |
Lo duca mio,
che mi potea vedere
far sì com' om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere, |
|
118 |
La mia guida, che mi
poteva vedere nello stesso atteggiamento di un uomo che
si scioglie dal sonno, disse; «Che hai che non puoi
reggerti bene, |
121 |
ma se'
venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?». |
|
121 |
ma per più di mezza lega
hai camminato con gli occhi semichiusi e con le gambe
quasi legate, come un uomo vinto dal vino o dal sonno?» |
124 |
«O dolce
padre mio, se tu m'ascolte,
io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparve
quando le gambe mi furon sì tolte». |
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124 |
«O dolce Virgilio, se tu
mi presti ascolto, io ti descriverò» dissi, «ciò che. mi
apparve quando mi fu a quel modo tolto l'uso normale
delle gambe.» |
127 |
Ed ei: «Se
tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve. |
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127 |
Ed egli: «Anche se tu
avessi il volto celato da cento maschere, i tuoi
pensieri, per quanto piccoli, non mi resterebbero
nascosti. |
130 |
Ciò che
vedesti fu perché non scuse
d'aprir lo core a l'acque de la pace
che da l'etterno fonte son diffuse. |
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130 |
Le visioni apparvero
affinché tu non rifiuti di aprire il tuo cuore al
sentimento di mansuetudine che sgorga dalla fonte eterna
di Dio. |
133 |
Non dimandai
"Che hai?" per quel che face
chi guarda pur con l'occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace; |
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133 |
Non, ho chiesto "Che
cos'hai" per la ragione per la quale lo domanda colui
che, quando un altro giace col corpo privo di forze,
vede solo con l'occhio materiale (l'occhio che non vede,
cioè l'occhio capace di cogliere solo gli aspetti
esteriori, ma non quelli interiori, delle cose e che; in
questo caso, non può capire il motivo per cui il corpo è
disanìmato); |
136 |
ma dimandai
per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede». |
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136 |
ma ho fatto quella domanda
per spronare il tuo piede: così è necessario stimolare i
pigri, che sono lenti a riprendere la loro attività
quando essa (dopo un periodo di sonno o di smarrimento)
ritorna». |
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Dopo l'ampio e vitale respiro della spiegazione sulla
qualità - suggerita per via di analogie ma destinata a
rimanere mistero per una ragione chiusa al trascendente
- dei beni spirituali, dopo il folgorare, nella mente
del discepolo, degli esempi di mansuetudine, Virgilio
riprende il suo abito consueto di pedagogo. Il suo
linguaggio sale di tono, diventa qua e là nobilmente
paludato (ad opera di latinismi come larve... cogitazion...
parve, di un elaborato giro perifrastico come quello dei
versi 133-135, di un'altra perifrasi, di intonazione
evangelica - Tacque della pace - ma piegata al ritmo di
un ferreo argomentare) e si conclude con una massima di
sapore proverbiale. II sole volge al tramonto ed anche
la luce intellettuale che il maestro ha irradiato con la
sua parola sembra piegare verso un temporanea punto di
sosta, un ragionare di minore impegno, un insegnamento
più umile, che una ferma sentenza suggella. |
139 |
Noi andavam
per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti. |
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139 |
Noi procedevamo nella
sera, intenti a guardare davanti a noi per quanto
potevano spingersi lontano i nostri occhi che avevano di
fronte gli ultimi ma luminosi raggi del sole. |
142 |
Ed ecco a
poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi. |
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142 |
Ed ecco avvicinarsi a noi
a poco a poco un fumo scuro come la notte; e non c'era
un luogo dove ripararsida quello: |
145 |
Questo ne
tolse li occhi e l'aere puro. |
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145 |
questo fumo ci tolse la
vista delle cose e l'aria pura. |
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Questo canto eminentemente dialogico si chiude su una
nota di raccoglimento e di silenzio. Il mistero della
sacra montagna (un fummo farsi), lo spazio che il sole
occiduo sembra dilatare a perdita d'occhio impongono una
pausa al travagliato proporsi, in termini di ragione,
del motivo della purificazione e dell'ascesa. |
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