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DIVINA
COMMEDIA: PARAFRASI
PURGATORIO
CANTO XIX° |
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1 |
Ne l'ora che
non può 'l calor dïurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno |
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1 |
Nell'ora (l'ultima della notte) in cui
il calore solare non può più mitigare il gelo dei raggi
lunari, perché ormai è vinto dal freddo naturale della
terra, e talvolta da quello del pianeta Saturno. |
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Secondo la scienza del tempo si attribuiva il
progressivo raffreddamento notturno della terra ai raggi
freddi del pianeta Saturno (cfr. Convivio II, XIII, 25),
quand'era all'orizzonte, e della luna, la quale "non è
fredda in sé; ma è effettiva di freddo" (Buti). |
4 |
- quando i
geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l'alba,
surger per via che poco le sta bruna -, |
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4 |
nell'ora in cui gli indovini vedono
sorgere ad oriente, poco prima dell'alba, una figura
somigliante a quella che essi chiamano Fortuna Maggiore,
in una parte dell'orizzonte che per poco tempo rimane
ancora oscura, |
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I geomanti erano indovini che traevano le loro
predizioni dallo studio di figure geometriche ottenute
segnando sulla sabbia o sulla terra (geomanti: indovini
per mezzo della terra) dei punti senz'ordine e
congiungendo questi punti con linee. Tra le figure di
particolare valore per i geomanti vi era quella chiamata
Fortuna maior (Maggior Fortuna), formata da sei punti in
forma di quadrilatero munito di una coda, e simile alla
figura formata dalle ultime stelle dell'Acquario e dalle
prime della costellazione dei Pesci, che precedono la
costellazione dell'Ariete, in congiunzione con la quale,
durante l'equinozio di primavera, sorge il sole (per via
che poco le sta bruna). |
7 |
mi venne in
sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba. |
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7 |
mi apparve in sogno una donna
balbuziente, con gli occhi guerci, e sciancata, con le
mani rattrappite, e pallida in volto. |
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La femmina balba e deforme ,è simbolo, come chiarirà più
avanti Virgilio (versi 58-60), dei tre vizi nei quali
l'uomo. cade per eccessivo amore (per troppo... di
vigore) dei beni terreni, vizi che si puniscono nei tre
ultimi gironi del purgatorio: avarizia, gola, lussuria (cfr.
canto XVII, versi 133-137).
La mostruosa apparizione femminile emblema - nella
laidezza dell'aspetto esteriore - di una somma di
incapacità:
1) incapacità di parlare, di formulare quindi un
pensiero, di comunicare una verità; la "distorsione" che
ne definisce l'aspetto fisico é già anticipata (verso 7)
nel balbettamento che manifesta il vaneggiare della
mente nei meandri di un errore senza riscatto; poiché la
parola è l'equivalente - la forma sensibile - del
pensiero, il balbettamento della femmina (una
connotazione negativa è già nella scelta di questo
termine) indica il suo ambiguo proporsi come menzogna,
involuzione dolorosamente ostacolata dal male che porta
in sé, negazione di ogni luce di evidenza;
2) incapacità quindi di scorgere il vero, del
quale pur riesce ad avere un qualche presentimento, ma
distorto, incompleto, adulterato. Il Poeta non la
definisce cieca, ma soltanto guercia: la cecità assoluta
- appunto perché esprimente una condizione definitiva,
priva di ambiguità, ne avrebbe in certo modo nobilitato,
sul piano dell'immaginazione del sogno, la figura,
avrebbe potuto far supporre nella cecità dei suoi occhi
di carne un dono di Dio, il segno tangibile di una
luminosità interiore e serena, di un possesso del vero
svincolato dalle remore dell'apparato sensorio;
3) incapacità non soltanto di scorgere il vero -
il quale coincide, nella visione cristiana, con una
accresciuta pienezza di vita - ma anche di procedere
sulla via che al vero conduce (sovra i piè distorta).
La figura della femmina balba risulta ripugnante proprio
in virtù di questo dimezzamento di ogni caratteristica
umana che in lei si rende manifesto: non è priva del
dono della parola, ma balbetta; possiede ancora la
capacità di vedere, ma si tratta di un vedere parziale,
e quindi, di necessità, falsificante (nelli occhi
guercia); è in gíado di camminare, ma grottescamente,
spaventosa marionetta, per la deformazione che ne
deturpa e rende, se non inservibili, certo incapaci di
seguire un percorso rettilineo (la via che conduce al
vero), gli organi del movimento (saura i piè distorta).
Questa apparizione antelucana contrasta violentemente -
pur inquadrandosi in esso - con il glorioso esordio,
profilante, sullo sfondo di spiagge infinite, in una
luce già densa del presagio solare (per via che poco le
sta bruna), la visione, sia pure ottenuta al di fuori
della preghiera e della Grazia, di quella enimmatica
beneaugurante Maggior Fortuna, della quale solo i
geomanti hanno il potere di costruire i profili e
decifrare il messaggio. |
10 |
Io la
mirava; e come 'l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta |
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10 |
Io la osservavo
fissamente; e come il sole rinfranca le membra
intirizzite che il freddo della notte intorpidisce, così
il mio sguardo le rendeva sciolta |
13 |
la lingua, e
poscia tutta la drizzava
in poco d'ora, e lo smarrito volto,
com' amor vuol, così le colorava. |
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13 |
la lingua, quindi in breve tempo le raddrizzava tutta la
persona, e donava al volto sbiancato quel colore roseo
che è suscitato dall'amore. |
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Dante è preda di un sogno ingannatore. Il suo sguardo
trasforma la mostruosa apparizione iniziale in essere di
suprema seduzione. La femmina balba assume nel tempo che
scandisce una illimitata ipnosi - le fattezze che il
desiderio conferisce al proprio oggetto (è un dato
dell'esperienza comune che la realtà si atteggia
diversamente a seconda del modo in cui la consideriamo:
troviamo in essa ciò che in essa abbiamo posto). Il
Poeta esprime questa attrazione fatale, sottratta ai
freni della volontà cosciente, dicendo: com'amor vuol,
così le colorava (verso 15). Nel vuol è tutta la
ineluttabilità di amor, naturalisticamente concepito,
secondo teorie che erano state del dolce stil novo, in
quanto negazione radicale non solo dell'amore cristiano
(la carità, virtù sovrannaturale), ma anche di quel
freno infuso in noi per vie naturali, che - secondo
quanto è stato detto nel canto precedente - deve
custodire la soglia dei nostri istinti. Così le
colorava: nel colore si compendia ciò che di più
leggiadro - e leggiero - è data riscontrare nel mondo
del visibile: ogni forma, ogni struttura lineare
propongono sempre un pensiero, introducono alle asperità
ed ineluttabilità della logica, laddove le pure qualità
cromatiche si porgono a noi come oggetto di
incontaminata sensazione, di fluido sogno, indeciso tra
l'essere e il parere. |
16 |
Poi ch'ell'
avea 'l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto. |
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16 |
Dopo che ebbe così sciolta
la lingua, la donna cominciava a cantare con tanta
dolcezza che a fatica avrei potuto distogliere da lei la
mia attenzione. |
19 |
«Io son»,
cantava, «io son dolce serena,
che ' marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena! |
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19 |
«Io sono»
cantava, «io sono la dolce sirena, che distolgo dalla
loro via i marinai in mezzo al mare, a tal punto sono
piena di piacere per chi mi ascolta! |
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Le sirene, secondo il mito, erano mostri marini
dall'aspetto di bellissima donna nella parte superiore
del corpo, e di mostruoso pesce in quella inferiore, ed
ammaliavano i marinai con il loro dolce canto, attirando
le navi a sfracellarsi contro gli scogli. Già presso gli
antichi esse rappresentavano il rovinoso allettamento
del piacere sensuale. |
22 |
Io volsi
Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s'ausa,
rado sen parte; sì tutto l'appago!». |
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22 |
Io attrassi col mio canto anche Ulisse,
sebbene desideroso di proseguire il suo cammino; e
chiunque si abitua alla mia compagnia, raramente se ne
allontana, a tal punto riesco ad appagarlo totalmente)!» |
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Ulisse, secondo il racconto di Omero, sfuggì al fascino
delle sirene, ma non a quello di Circe - che fu una maga
e non una sirena - la quale trattenne l'eroe greco per
più di un anno (cfr. Inferno XXVI, 91-92). Dante, che
non aveva letto l'Odissea, probabilmente fu ingannato
dall'ambiguità di un passo del De finibus (V, XVIII,
48-49), in cui Cicerone traduce le parole delle sirene,
ma non dice affatto che Ulisse sfuggì al loro canto;
oppure ha usato il vocabolo « sirena » in senso
metaforico, per indicare genericamente gli allettamenti
dei falsi piaceri.
Interessante appare soffermarsi sulla caratterizzazione
che la fantomatica apparizione notturna, il binomio per
adesso ancora enigmattco, insolubile. femmina-serena,
fornisce del peregrinare di Ulisse. Nell'epico, asciutto
resoconto del canto XXVI dell'Inferno questo peregrinare
aveva un movente (l'ardore... a divenir del mondo
esperto) e una meta (l'esperienza), scaturiva dalla
incondizionata dedizione a quelli che, nei convincimenti
dell'eroe greco - portavoce diretto dell'eroico sentire
di Dante, dell'ardore di sapere che contraddistinse
tutta la sua opera di poeta e di trattatista -
apparivano i caratteri distintivi e nobilitanti
dell'uomo, inteso nella sua universalità: seguir virtute
e canoscenza, mai appagandosi del risultato raggiunto,
mai cercando pace o liberazione nella limitatezza
invitante di un singolo oggetto, separato dalla totalità
(il mondo) della quale fa parte. La serena sostiene una
tesi a questa interpretazione affatto contraria; il
peregrinare di Ulisse sarebbe stato, secondo lei,
destituito di un qualsiasi fine o significato; soltanto
nelle lusinghe del suo canto il superstite eroe della
decennale carneficina sotto le mura di Troia avrebbe
trovato - rinnegando in tal modo il senso stesso del suo
esistere più profondo e del suo conseguente tragico
destino, quali appaiono nell'episodio dell'Inferno -
pace, beneficio, stasi, quell'inerzia che è tipica degli
oggetti e appare indegna dell'uomo. |
25 |
Ancor non
era sua bocca richiusa,
quand' una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa. |
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25 |
La sua bocca non si era ancora chiusa,
quando accanto, a me apparve una donna santa e sollecita
per svergognarla. |
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Il significato allegorico di questa donna... santa e
presta, che, volutamente si contrappone alla femmina del
verso 7, è variamente interpretato dai commentatori.
Forse non raffigura la temperanza (Zingarelli), né la
filosofia (Sapegno), ma Lucia-Grazia illuminante (Mattalia)
e sarebbe il simbolo di un aiuto sovrannaturale a
Virgilio-Ragione, che riesce così a svelare il
non-valore (il puzzo del ventre del verso 33) dei beni
mondani. Il Marti sintetizza felicemente la fisionomia
generale di questa visione antelucana, sospesa
nell'irrealtà della ipnosi. Dopo aver attentamente
analizzato il proporsi dei singoli valori simbolici ed:
il senso complessivo del loro drammatico contrapporsi in
questo incubo paralizzante, il Marti scrive: "Dante ha
avuto la mano felice nel creare la sospesa e quasi
allucinata atmosfera di sogno, in una rappresentazione
nitida e nettamente disegnata, ma anche priva d 'ogni
realistica corposità; vera ed inverosimile insieme;
concreta di colori e d'immagini, e tuttavia lieve di
un'aerea inafferrabile levità; ricca di drammatico
movimento, eppure quasi fissa ed immobile in una sua
connaturata astrattezza". |
28 |
«O Virgilio,
Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta. |
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28 |
«O Virgilio, Virgilio, chi
è costei?» diceva con accento sdegnato; e Virgilio
s'accostava tenendo gli occhi sempre fissi su quella
donna onesta. |
31 |
L'altra
prendea, e dinanzi l'apria
fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n'uscia. |
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31 |
Quindi afferrava l'altra,
e la scopriva davanti squarciandole le vesti, e me ne
faceva vedere il ventre: questo mi svegliò col fetore
che emanava. |
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Il risveglio dal sogno si concreta in un urto di estrema
brutalità, in una presa di contatto violenta e
ripugnante con il reale. Nel verso 33 riaffiora, in
cadenze evidenziate all'estremo, il cupo realismo,
lievitato di sdegno incontenibile - espressione di un
furore polemico che nessun limite riesce a contenere, di
una intransigenza pesante e spigolosa - che è tipico di
certe atmosfere infernali particolarmente soffocate ed
opprimenti. Le lusinghe del sogno hanno palesato il loro
aspetto repellente. La femmina balba, che l'anima -
preda della propria non raggiunta chiarezza - ha
metamorfosato in serena, in lusinga di canto alla quale
lo stesso Ulisse aveva dovuto sottomettersi, è costretta
a svelare intera la propria realtà negativa, la propria
oscena laidezza. Il verso 32, nel quale il termine
drappi - il fastoso, illusorio, rivestimento esteriore
di tale aborrita menzogna - duramente, contrasta col
ventre immondo (il solo atto di esibirlo sembra
denunciarne una innominabile, mostruosa deforniità,
fonte di malefizio e sciagure da tenersi celata,
occultata in quelle tenebre, da cui, sul far del giorno,
era emersa), anticipa il realismo greve del verso,
successivo, il quale con tanto vigore suggella,
specchiandolo nella sua vera essenza, il sogno
ingannatore (quel mi svegliò col puzzo che n'uscìa). |
34 |
Io mossi li
occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre
voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam l'aperta per la qual tu entre». |
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34 |
Io mossi gli occhi, mentre
il mio valente maestro nei diceva: «Almeno tre volte ti
ho chiamato! Alzati e vieni: vediamo di trovare
l'apertura nella roccia attraverso la quale tu possa
entrare». |
37 |
Sù mi levai,
e tutti eran già pieni
de l'alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni. |
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37 |
Mi alzai in piedi, e già
tutti i gironi del sacro monte erano pieni della luce
mattutina ormai alta suIl'orizzonte, e camminavamo
avendo alle spalle il sole del nuovo giorno. |
40 |
Seguendo
lui, portava la mia fronte
come colui che l'ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte; |
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40 |
Seguendo Virgilio, tenevo
bassa la fronte come chi l'ha oppressa da gravi
pensieri, e procede curvo facendo con la persona un
mezzo arco di ponte, |
43 |
quand' io
udi' «Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca. |
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43 |
quando udii dire: «Venite,
si passa di qui» con un tono così soave e benigno, come
non si sente mai nel nostro mondo terreno. |
46 |
Con l'ali
aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno. |
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46 |
Colui che così ci parlò,
con le ali aperte, candide come quelle d'un cigno, ci
avviò verso l'alto (alla scala incavata) tra due pareti
di duro sasso. |
49 |
Mosse le
penne poi e ventilonne,
'Qui lugent' affermando esser beati,
ch'avran di consolar l'anime donne. |
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49 |
Poi mosse le ali e ci
ventilò, affermando esser beati « Quelli che piangono »
(è la seconda beatitudine evangelica: cfr. Matteo V, 4;
Luca VI, 21), perché avranno le loro anime piene di
consolazione. |
52 |
«Che hai che
pur inver' la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l'angel sormontati. |
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52 |
Noi due, ci eravamo di
poco portati più in alto dell'angelo, quando la mia
guida cominciò a dirmi: «Che cos'hai che continui a
guardare a terra?» |
55 |
E io: «Con
tanta sospeccion fa irmi
novella visïon ch'a sé mi piega,
sì ch'io non posso dal pensar partirmi». |
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55 |
Ed io gli risposi: «Mi fa
camminare con tanto dubbio una recente visione che
attira a sé la mia mente, tanto che non riesco a fare a
meno di pensarci». |
58 |
«Vedesti»,
disse, «quell'antica strega
che sola sovr' a noi omai si piagne;
vedesti come l'uom da lei si slega. |
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58 |
Mi rispose: «Hai visto
quella vecchia strega ammaliatrice, la quale rappresenta
solo i vizi che ormai restano da espiare nei gironi
superiori; hai visto come l'uomo riesce a. liberarsi da
lei. |
61 |
Bastiti, e
batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne». |
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61 |
Ti basti quanto hai
sentito, e affretta il passo (batti a terra le calcagne)
: volgi gli occhi in alto al richiamo che il re eterno
fa ruotare con le sfere celesti». |
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Il logoro era lo strumento con cui il falconiere
richiamava il falcone in caccia (cfr. Interno XVII,
127-128) e la metafora introduce il successivo paragone
tratto da scene e momenti della caccia col falcone, arte
assai praticata nelle corti medievali. Percuotano la
terra le calcagne - esorta, impone (bastiti) Virgilio -
quasi con furore, con ira, nell'impazienza di non
potersene ancora staccare: il cammino del pentimento è
ancora lungo ed aspro. A questa immagine si contrappone
quella liberatrice, del moto sereno delle sfere celesti
(le rote magne), sottratte al peso della gravità,
spontaneamente obbedienti al richiamo dell'altezza, là
dove è la sede, fuori di ogni spazio, di ogni tempo
(nell'empireo) del loro rege. |
64 |
Quale 'l
falcon, che prima a' pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira, |
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64 |
Come fa il falcone, che
prima sta con gli occhi fissi ai piedi, poi si volge al
richiamo del falconiere e tutto si protende per il
desiderio del pasto, che lo attira in quella direzione, |
67 |
tal mi fec'
io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n'andai infin dove 'l cerchiar si prende. |
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67 |
così feci io; e così, per
tutta la fenditura della roccia che si apre per dare
passaggio a chi sale (quanto si fende la roccia per dar
via a chi va suso), procedetti fin dove si riprende a
camminare in cerchio (cerchiar: seguendo la curva del
girone); |
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L'immagine del logoro deve essere rapportata a quella
del falcone. Il Tonelli trova che il trinomio logoro -
rote magne - falcon, pur non destituito di un suo
innegabile vigore, costituisce una immagine "forse un
tantino barocca (o piuttosto, medievale, nella sua
enormità)" ed aggiunge: "Forse le due immagini [quella
del logoro che gira lo rege etterno con le rote magne e
quella del felcon] sono troppo vicine, e, quasi
sovrapponendosi fra loro, si oscurano (il che spiega il
modo diverso d'interpretare la seconda immagine, da
parte dei commentatori); ma a me sembra che,
considerando, in entrambi i casi, Dio come il
falconiere, Dante come falcone, tutto si chiarifichi
sufficientemente: ché, nel primo, Dio richiama Dante col
logoro delle rote magne: nel secondo lo sollecita con
l'offerta del pasto spirituale". Tuttavia questo nodo
metaforico - di una densità e compattezza tali da poter
lasciare perplesso chi non abbia consuetudine con il
modo di concepire medievale, e identifichi la poesia in
talune costanti di armonia e trasparenza, rese canoniche
dalle poetiche rinascimentali e post-rinascimentali -
non ha bisogno di uno svolgimento esplicativo nel senso
didascalico e prudentemente razionalizzatore che
caratterizza l'interpretazione del Tonelli, imponendosi
al contrario da sé - ad una lettura non prevenuta come
un blocco architettonico dai profili sicuri, indelebile. |
70 |
Com' io nel
quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso. |
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70 |
Appena fui uscito
all'aperto sul quinto girone, vidi anime sparse in esso
che piangevano, giacendo bocconi a terra. |
73 |
'Adhaesit
pavimento anima mea'
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s'intendea. |
|
73 |
«L'anima mia si è
attaccata alla terra (è il versetto 25 del Salmo CXIX)»
le udivo dire con sospiri di dolore casi profondi, che
appena si percepivano le loro parole. |
76 |
«O eletti di
Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri». |
|
76 |
«O eletti di Dio, le cui
sofferenze sono alleviate dalla giustizia e dalla
speranza, indirizzateci verso i gradini dell'altra scala
(che porta al girone superiore).» |
79 |
«Se voi
venite dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori». |
|
79 |
«Se voi venite esenti
dalla pena che ci fa qui giacere, e volete trovare più
presto la via, tenete le vostre destre sempre dalla
parte esterna della parete del monte.» |
82 |
Così pregò
'l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io
nel parlare avvisai l'altro nascosto, |
|
82 |
Così pregò il poeta e così ci fu
risposto poco più avanti di noi, per cui io per mezzo
della voce riuscii a indivìduare l'interlocutore
invisibile nel volto (perché giacente bocconi a terra); |
85 |
e volsi li
occhi a li occhi al segnor mio:
ond' elli m'assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio. |
|
85 |
e volsi il mio sguardo
verso gli occhi della mia guida, per cui egli acconsentì
con un cenno compiacente a quello che chiedeva il mio
sguardo che manifestava il desiderio di parlare con
quello spirito. |
88 |
Poi ch'io
potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno, |
|
88 |
Non appena fui libero di
disporre di me a mio piacimento, mi accostai a quella
creatura le cui parole prima avevano richiamato la mia
attenzione, |
91 |
dicendo: «Spirto
in cui pianger matura
quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura. |
|
91 |
dicendo: «O spirito in cui
il pianto matura quella purificazione senza la quale non
si può tornare a Dio, sospendi un poco per me la tua
penitenza. |
94 |
Chi fosti e
perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri
cosa di là ond' io vivendo mossi». |
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94 |
Dimmi chi fosti e perché
avete le schiene rivolte al cielo, e dimmi anche se vuoi
che ti ottenga qualcosa nel mondo da dove io, essendo
ancora in vita, sono venuto». |
97 |
Ed elli a
me: «Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri. |
|
97 |
Ed egli a me:
«Conoscerai poi il peccato per cui il cielo ci ha
condannati a stare con le schiene in alto, ma prima
sappi che io fui papa (successor Petri). |
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L'anima che parla è quella del genovese Ottobuono, dei
conti Fieschi di Lavagna, il quale fu papa per trentotto
giorni, col nome di Adriano V, dall'11 luglio al 18
agosto 1276. Il suo pontificato fu troppo breve per
lasciare fama particolare e la sua avarizia storicamente
non risulta. Forse Dante confonde Adriano V con Adriano
IV, del quale Giovanni di Salisbury (Policraticus VIII,
23) riporta parole assai simili a quelle che il Poeta
attribuisce a Ottobuono dei Fieschi riguardo al peso del
pontificato e alla vanità degli onori (versi 103-105;
108-110). Certamente però il recente e brevissimo papato
di Adriano V si prestava assai bene ai fini che il Poeta
si era proposto: mostrare come in quei tempi di sfrenata
cupidigia, quando al governo della Chiesa saliva un papa
non più avido di beni terreni, la fortuna durava meno di
una stagione.
La presentazione, improntata a "solennità sacerdotale"
(Marti), che l'anima fa di se stessa nel verso 99
determina un contrasto fortissimo con la preghiera dei
penitenti in questa cornice (« adhaesit pavimento anima
mea »), contrasto accentuato dal fatto che le due
espressioni sono nobilitate, rese definitive e come
scolpite in epigrafe, dall'uso del latino. Questo
pontefice, prima di evocare liricamente la sua vita
privata, il travagliato emergere in lui della coscienza
della vanità dei beni mondani, vuole mettere in risalto
la dignità suprema (successor Petri) di cui in terra fu
rivestito. La forza dell'imperativo scias - cui la
posizione in principio di verso conferisce un tono di
comando non trasgredibile - fa grandeggiare, fin dalle
sue prime parole, la figura di Adriano V sulla massa
mite ed anonima dei suoi compagni di espiazione.
Osserva in proposito il Marti che i richiami alla
letteratura sacra e l'uso di termini aulici, che
sollevano il dire del pontefice a toni di meditata
elezione "concorrono al ritratto dì un personaggio
austero e solenne, sacerdotale, ed insieme umile ed
affabile; poiché quella solennità (scias quod ego fui
suceessor Petri) è anche mortificante confessione di
colpa tanto più grave, quanto sovrana l'autorità é più
alto il prestigio morale e spirituale del peccatore". |
100 |
Intra
Sïestri e Chiaveri s'adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima. |
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100 |
Tra Sestri
Levante e Chiavari scende in basso un bel torrente, il
Lavagna, e dal suo nome il nome della mia famiglia trae
il suo maggiore vanto. |
103 |
Un mese e
poco più prova' io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l'altre some. |
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103 |
Per poco più di un mese io
provai quanto pesa il gran manto pontificale a chi lo
vuole conservare puro dal fango, tanto che tutti gli
altri pesi al confronto sembrano leggieri come piume. |
106 |
La mia
conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda. |
|
106 |
La mia conversione,
ahimè!, fu tardiva; ma appena fui eletto romano pastore,
in questo modo scopersi come sono menzogneri i beni
mondani (la vita bugiarda). |
109 |
Vidi che lì
non s'acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore. |
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109 |
Vidi che neppure lì (sul
seggio papale) il cuore si quietava, né in quella vita
terrena si poteva salire più in alto, per cui in me si
accese l'amore per la vita eterna. |
112 |
Fino a quel
punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita. |
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112 |
Fino al momento della mia
elezione (a quel punto) ero stato un'anima miserabile e
divisa da Dio, completamente dominata dall'avidità: ora
qui, come vedi, ne sono punito. |
115 |
Quel
ch'avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l'anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara. |
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115 |
Quali siano gli effetti
dell'avarizia, qui si dimostrano chiaramente
nell'espiazione delle anime convertitesi; e il monte non
ha alcuna pena più amara della nostra. |
118 |
Sì come
l'occhio nostro non s'aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse. |
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118 |
Siccome il nostro occhio,
sempre fisso alla realtà terrestre, non si sollevò al
cielo, così qui la giustizia divina lo fa stare rivolto
a terra. |
121 |
Come
avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene, |
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121 |
E come l'avarizia spense
in noi l'amore di ogni vero bene, e per questo il nostro
operare fu vano, così qui la giustizia divina ci tiene
stretti, |
124 |
ne' piedi e
ne le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi». |
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124 |
legati e avvinti nelle
mani e nei piedi (impedendoci di agire), e staremo qui
immobili e distesi quanto piacerà al giusto re». |
127 |
Io m'era
inginocchiato e volea dire;
ma com' io cominciai ed el s'accorse,
solo ascoltando, del mio reverire, |
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127 |
Io mi ero inginocchiato
accanto a lui e volevo parlare; ma appena cominciai ed
egli, solo dall'udire più vicina la mia voce, s'accorse
del mio atto di riverenza, |
130 |
«Qual cagion»,
disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse». |
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130 |
«Quale motivo» disse «ti
indusse a piegarti così in basso verso di me?» E io gli
risposi: «Per la vostra dignità la mia coscienza mi fece
venire il rimorso di stare diritto». |
133 |
«Drizza le
gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate. |
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133 |
Rispose: «Fratello, drizza
le gambe, alzati! Non cadere in errore (attribuendomi
onori speciali): assieme a te e con gli altri sono
anch'io un servo di fronte all'unica autorità di Dio. |
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(L'espressione drizza le gambe riecheggia l'energica
esortazione di Virgilio: bastiti, e batti a terra le
calcagne, laddove il comando non errar ripropone il
vigoroso scias del verso 99), suggellando cosi la
meditata scansione che ha espresso sin qui - nel
volgersi doloroso di uno sguardo quasi del tutto teso al
proprio passato - il processo di interiore ripensamento
iniziato in terra da quest'anima. Tuttavia, in questa
medesima terzina, termini come frate e conservo
ribadiscono il coesistere, nel dire di questo papa
penitente, del terna dell'umiltà accanto a quello della
somma dignità sacerdotale da lui rivestita. |
136 |
Se mai quel
santo evangelico suono
che dice 'Neque nubent' intendesti,
ben puoi veder perch' io così ragiono. |
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136 |
Se hai capito quelle sante parole
evangeliche che dicono: "Né sposeranno", ti apparirà
chiaro perché io parlo (ragiono) in questo modo. |
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Ai Sadducei che gli chiedevano di chi sarebbe stata
moglie, dopo la resurrezione della carne, una donna che
avesse sposato successivamente sette fratelli, Cristo
rispose che "nella risurrezione, né gli uomini avranno
moglie, né le donne marito" (Matteo XXII, 29-30),
volendo significare che nell'al di là ogni rapporto o
obbligo umano sarà annullato. |
139 |
Vattene
omai: non vo' che più t'arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti. |
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139 |
Prosegui ormai la tua
strada: non voglio che ti trattenga ancora, perché la
tua permanenza disturba il mio pianto, col quale
completo ciò che tu dicesti. |
142 |
Nepote ho io
di là c'ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia; |
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142 |
Nel mondo ho una nipote
che si chiama Alagia, buona per indole, purché la nostra
famiglia non la renda malvagia col suo esempio; |
145 |
e questa
sola di là m'è rimasa». |
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145 |
e di là mi è rimasta lei
sola (che possa pregare per me)». |
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Alagia, figlia di Niccolò, fratello di Adriano, andò
sposa a Moroello Malaspìna. Dante la conobbe in
Lunigiana quando fu ospite di lei e del marito nel 1306. |
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